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mini-intervista ad Andrea Orlando del Pd

Ho seguito il Partito Democratico insieme a Bernardo Cianfrocca per le elezioni europee. Questa intervista non programmata è una delle tante cose che abbiamo fatto quella sera insieme ai nostri colleghi. A ridosso degli exit-poll

 

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Torrenova, l’altra Roma

Articolo pubblicato su “La Sestina”, il quotidiano online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Leggi tutti gli altri articoli cliccando qui

Via della Tenuta di Torrenova è poco più di un chilometro di strada nella periferia sud-est della Capitale, tra Tor Vergata e Tor Bella Monaca. La strada è costeggiata da tre complessi di edilizia popolare che i residenti chiamano “case” e differenziano per i colori con cui sono state verniciate dopo la costruzione avvenuta a partire dagli anni Settanta: le rosse, le bianche e le verdi. Qui c’è un’altra Roma, dove alle minacce di stupro di Casal Bruciato e ai panini gettati in strada di Torre Maura si contrappongono i gesti di accoglienza di un centinaio di persone che hanno organizzato turni per proteggere una madre rom e le sue figlie dagli estremisti di destra locali.

La vicenda – Domenica 4 maggio alcuni residenti delle case verdi e i neofascisti di Azione Frontale si sono dati appuntamento sotto il portone di Suzana, una donna di origine rom che vive dal 28 marzo nel complesso popolare insieme alle quattro figlie. La colpa della «zingara» è stata quella di «superare gli italiani nelle graduatorie», vedendosi assegnare regolarmente un alloggio dal Comune. La dimostrazione non aveva ottenuto autorizzazioni, ma il gruppo composto da neofascisti e residenti ha deciso comunque di sfilare, con le camionette delle Forze dell’ordine a vigilare. Quindi gli insulti e le minacce da sotto il balcone. «Zingari di merda», canta a mò di coro un uomo. «Prima gli italiani», il motto generale.

«Hanno minacciato di mettermi una bomba in casa» – «Da quando mi hanno assegnato l’alloggio i miei figli sono stati insultati. “Andate via”, gli dicevano. Hanno minacciato di mettermi una bomba in casa», racconta Suzana ad Ala News. È la stessa donna a confermare come la tensione sia esplosa poche settimane prima della protesta, quando i suoi figli hanno avuto un litigio con altri ragazzi della zona. Sarebbe bastato questo per i residenti delle case verdi per andare sotto il balcone della donna, insultandola e mostrandole un sacco dell’immondizia nera come «posto che ti spetta».

La risposta – Nelle ore successive all’accaduto almeno un centinaio di persone si sono radunate nello stesso cortile, ma non per continuare con le minacce bensì per difendere Suzana. Dopo una serie di messaggi via WhatsApp, diverse sigle di sinistra, dai sindacati alle mamme di quartiere fino all’Anpi locale, hanno creato una rete di solidarietà organizzando turni di veglia davanti alla Scala I, dove vive la famiglia di Suzana. «Come Asia Usb abbiamo voluto riportare l’attenzione sui problemi reali – spiega Maria Vittoria Molinari, presente alla manifestazione – Mentre i fascisti spostano l’attenzione sfruttando i problemi dei più deboli, noi vogliamo che si parli di questioni cruciali come la mancanza di alloggi popolari. Sono dinamiche particolari e delicate per cui i residenti prima litigano coi rom e poi vengono messi l’uno contro l’altro. Nelle popolari ci sono più nuclei che vivono. La mancanza delle case popolari – continua – dovrebbe essere il punto su cui le istituzioni dovrebbero agire. Caserme dismesse, case di un tempo sede di enti ed ex-uffici rimangono disabitati».

Uno dei volantini diffusi a Torrenova da Azione Frontale che ritrae Molinari, una delle partecipanti della contromanifestazione antifascista

I volantini – Dopo la contro-manifestazione c’è stata anche una ritorsione: l’affissione di volantini che ritraggono la stessa Molinari con un testo volto a screditarne l’operato e quello di chi ha partecipato al gesto di solidarietà nei confronti di Suzana. I volantini sono stati diffusi in tutto il quartiere di Torrenova a firma “Azione Frontale”. Tuttavia, i presìdi delle donne antifasciste continuano. «Siamo mamme, insegnati e dirigenti sindacali parte di una rete di coordinamento presente in tutto questo municipio – conclude Molinari – Siamo anche diverse sul piano politico, ma abbiamo una visione aperta per cui nelle nostre periferie questa gente non deve attecchire e devono esserci altre priorità».

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Fatebenefratelli, affari con distributori di caffè abusivi: coinvolto il Cral

Articolo pubblicato su “La Sestina”, il quotidiano online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. (Crediti copertina: Milano Post)

Una vicenda torbida, l’ennesima, per l’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Per 7 anni il Cral, il circolo ricreativo per i dipendenti, avrebbe guadagnato quasi 500mila euro dalle macchinette del caffè abusive installate in ospedale. Dai fascicoli depositati in Tribunale emerge come il circolo avrebbe lucrato intestandosi tra l’aprile del 2011 e il gennaio dell’anno scorso i 36 distributori, 24 di bevande calde e 14 di snack.

La vicenda – Stando all’inchiesta, non ci sono documenti che attestino la concessione per l’installazione e la gestione delle macchinette. «Manca la prova di qualsiasi rapporto contrattuale tra il Fatebenefratelli e il Cral», scriveva il giudice Rosita d’Angiolella già nel 2017. Tuttavia i distributori sono rimasti lì per anni, a riscuotere i soldi di un affare quasi perfetto: non venivano pagate l’elettricità né l’acqua consumate dai distributori perché a carico dell’azienda ospedaliera.

Le cose iniziano a cambiare nel gennaio del 2016, con il cambio ai vertici dell’ospedale. Sotto la guida del direttore generale Alessandro Visconti arriva la denuncia relativa all’abusivismo nelle aree ristoro del nosocomio. I legali del Fatebenefratelli, guidati dall’avvocato Sergio Carnevale, chiedono al Cral di pagare 475.125 euro come risarcimento danni per l’installazione abusiva, 101.821 per danno emergente provocato dal consumo di energia e 307.303 per lucro cessante. Attualmente sono iniziati gli sgomberi delle macchinette abusive e l’insediamento del gruppo vincitore del bando pubblicato nel 2016 per l’assegnazione degli spazi e la gestione.

Il precedente – Il Cral è stato creato con lo scopo di promuovere attività sociali e culturali ed è da sempre una costola dell’attività sindacale dell’ospedale. Attualmente, il gruppo conta oltre 400 iscritti che pagano 15 euro all’anno come quota d’iscrizione. Nel 2009, sette sindacalisti alla guida del circolo ricreativo furono coinvolti in presunte irregolarità circa spese non documentate. Una settimana bianca che superava i 6mila euro, regali per 5mila euro, serate teatrali del valore di 1.839 euro e ancora spese per multe, ricariche e rifornimenti di carburante. Tutte presunte spese ingiustificate già contestate dieci anni fa dai revisori dei conti.

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L’amore che rompe l’etichetta, quando un regnante sposa un borghese

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L’amore fuori dalla corte regale esiste. Come nelle fiabe più suggestive, anche nella realtà le unioni tra regnanti e commoner, come vengono definiti i non-nobili, hanno contraddistinto le vicende delle casate reali più importanti del mondo. L’ultimo ad aver trovato consorte al di fuori dell’etichetta è stato il re di Thailandia Rama X, che ha annunciato alla vigilia della sua incoronazione a guida suprema dell’arcipelago di aver sposato Suthida, arruolata nella Guardia Reale nonché ex-hostess della compagnia di bandiera nazionale Thai Airway.

Rivoluzione asiatica – Un matrimonio, quello ufficializzato a Bankgok, che si affianca alla rivoluzione avvenuta nella più antica casa reale in carica, quella del Giappone. È notizia di pochi giorni fa, infatti, il cambio al trono del regno del crisantemo, con Akihito che ha abdicato per motivi di salute in favore del figlio Narohito. Una decisione storica che apre alla rewa, la “nuova era” del Paese del Sole Levante anche in termini di relazioni. Il successore di Akihito, anch’egli legato alla figlia di industriali Machiko, è sposato dal 1993 con l’ex-diplomatica Masako, oggi imperatrice.

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L’Imperatore del Giapponese Naruhito e l’Imperatrice consorte Masako insieme alla figlia, la Principessa Aiko

In una fase della relazione, Masako, definita dalla stampa giapponese come “la principessa triste”, cadde in depressione anche a causa della stringente etichetta e dell’isolamento della corte. Oggi le cose vanno meglio e la neo-imperatrice ha superato ogni problematica cortigiana e personale e ormai le tradizioni regali sembrano attenuate. La loro nipote, infatti, la principessa Mako, ha deciso di seguire le orme della zia Sayako: entrambe sono legate a borghesi. La prima sposerà tra un anno il suo compagno, un impiegato di uno studio legale di Tokyo; la seconda è sposata dal 2005 con un funzionario pubblico con il quale vive in una casa nella capitale.

Sport, cultura e spettacolo – Gli incontri tra nobili e persone comuni avvengono nei contesti più disparati. Lo sport sembra essere uno di quelli in cui molti reali cadono in amore. Un caso su tutti vede l’unione dal 2011 tra il Principe Alberto di Monaco e l’ex-nuotatrice sudafricana Charlene Wittstock, conosciuta durante una gara natatoria. Oggi la coppia regna sul principato e hanno dato alla luce due gemelli, Jacques e Gabriella.

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Filippo e Letizia di Spagna

Meno famose, invece, ma comunque legate allo sport le vicende sentimentali di due regni scandinavi, quello di Svezia e quello di Danimarca. Nel primo caso, l’erede al trono svedese, la Principessa Vittoria, si innamora di Daniel Westling, ingaggiato come personal trainer di corte e finito per passare dai pesi al titolo di Duca. In Danimarca, furono cruciali le Olimpiadi di Sidney 2000. È lì che l’erede al trono della corona danese, il Principe Frederik, incontrò Mary Elizabeth, sua moglie dal 2003, presentandosi sotto mentite spoglie come “Fred”.

I retroterra delle dolci metà regali includono anche il mondo dello spettacolo e della cultura. Indimenticabile il ricordo di Grace Kelly, volto iconico e malinconico, passata dal sole californiano di Hollywood a quello della Costa Azzurra, dove fu Principessa consorte di Ranieri III di Monaco. Da romanzo anche l’incontro tra il Re di Spagna Filippo e la Regina Letizia. I due si incontrarono in Galizia, dove lei era inviata come giornalista della Cnn per raccontare un disastro ambientale provocato da una perdita di petrolio, con il Principe accorso per far visita alla popolazione colpita dall’incidente.

Il caso Windsor – Sempre sul filo del rotocalco, invece, le vicissitudini amorose in casa Windsor. Non è un caso, infatti, se le cronache della famiglia reale inglese hanno ispirato la pluripremiata serie “The Crown”. Il lato più apprezzato dai giornali scandalistici d’Oltremanica inizia con Edoardo VIII, che nel 1931 rinunciò al trono di San Giacomo per continuare il suo matrimonio con l’americana dal passato tormentato Wallis Simpson. Famosa la frase che la stessa Simpson disse sulla devozione del Re: «How can a woman be a whole empire to a man?», «Come può una donna valere più di un impero per un uomo?».

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Edoardo VIII (a destra) e Wallis Simpson

Da lui fino a Carlo e Diana, la cui storia è arcinota, il legame tra nobili britannici e comuni mortali è continuato proprio con i figli di Lady D: l’arrivo all’altare nel 2011 di William e Kate. I due si incontrarono nelle aule della prestigiosa Università di St. Andrews, in Scozia, dove i due studiarono e iniziarono una relazione decennale convolata nelle nozze dal forte appeal mediatico all’abbazia di Westminster. La Middleton, figlia di una famiglia legata al mondo degli affari e della politica, oggi è duchessa di Cambridge e Principessa dell’erede al trono inglese, nonché madre dei principini George, Charlotte e Louis. La loro unione, sulla scia dell’amore popolare per Lady D., è riuscita a far accettare la cosa, seppure con le dovute riserve. Riserve che, invece sembrano al centro dei problemi della recente coppia di sposi, il fratello Harry e l’attrice yankee Meghan, che si dice essere osteggiata dalla stessa Regina Elisabetta.

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Attualità Praticantato

«Io, fuori da una gang di latinos»

Articolo pubblicato su “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Scarica e leggi il magazine in formato digitale cliccando qui

Due giorni dopo il suo diciottesimo compleanno Javier, nome di fantasia, finisce in carcere per associazione a delinquere. Viene arrestato alle 4 del mattino con un’ordinanza di custodia che coinvolge altre 25 persone legate come lui alla Ms13, la Mara Salvatruchauna, una delle gang latine più feroci di Milano. «Già un blitz è movimentato, immagina con i postumi di un compleanno», scherza. Oggi 23enne, chiede l’anonimato «non per le ritorsioni», spiega, «ma per non intaccare la vita di ora». Arrivato in Italia nel 2000 con il ricongiungimento, Javier entra presto in una pandilla di Milano. In sede processuale, i giudici del tribunale minorile preferiscono sospendergli la pena con messa in prova. «Con gli altri in carcere abbiamo deciso di cambiare, ma solo io entro in comunità», racconta Javier. Che, uscito, ritrova i suoi compagni di cella. Una bevuta la prima volta, poi le richieste di tornare come prima. Lui rifiuta e continua il suo percorso tra difficoltà, sedute psicologiche e la responsabilità di una scelta. Ma non basta, insistono con maniere forti, questi amici. «Che sono gli stessi dei fatti accaduti alla stazione di Villapizzone, dove aggrediscono un ferroviere a colpi di machete, tranciandogli un braccio».

La violenza piega intere comunità a rimanere in silenzio e ad avere paura, legando l’Italia a un filo che porta dritto in San Salvador, dove i capi proclamano dalle carceri i reggenti di quelli che considerano i vicereami tra Lombardia e Liguria. Il fenomeno delle ritorsioni ai parenti in Salvador è così centrale che, secondo fonti delle comunità latine milanesi, lo stesso corpo diplomatico italiano ha spedito alle autorità salvadoregne un avviso circa le minacce che partivano dall’Italia. Queste dinamiche complicano il lavoro dei professionisti del sociale nel tutelare la scelta di chi vuole allontanarsi da violenza e morte. «Andavo nelle aree dove si ritrovavano vari gruppi, come i Latin Kings», racconta Massimo Conte di Codici Ricerche. «I salvadoregni arrivavano per fuggire dalla “luce verde”, come quella del semaforo, per cui qualcuno, da un affiliato rivale fino a un paramilitare della sombra negra, può ucciderti. Chi è riuscito ad avere una vita pulita ha fatto tutto in incognito perché chi era un ex doveva gestire il suo esserlo a causa delle ritorsioni. C’è un percorso di involuzione per cui quello che facevo negli anni Duemila oggi non posso più farlo. Servirebbe un investimento politico e istituzionale che si fa fatica a vedere», conclude Conte.

Le nuove generazioni subiscono il fascino di storie maledette e la mancata integrazione dopo il ricongiungimento fa il resto. Oggi le dinamiche di appartenenza colmano un vuoto e portano molti giovani sudamericani a una vita criminale. È successo così anche a Javier, che stava sotto l’ala protettrice di Kamikaze, capo storico della 13. «Ero piccolo e gli servivo. Mi portava sempre con lui, anche in vacanza. Sono cresciuto senza un padre e vedevo in lui un sostituto, mia madre era terrorizzata». Solo una lettera di Kamikaze dal carcere, in cui lo ringrazia per non aver fatto il suo nome in un processo per due rapine, assicura a Javier di allontanarsi dalla strada. «La messa in prova me la sono guadagnata lavorando in un centro diurno per disabili», sottolinea Javier, «stare con queste persone mi ha cambiato per sempre. Arrivo la mattina e sento che mi aspettano, che sono importante per loro. Ti ringraziano con uno sguardo per un bicchiere d’acqua. Capisci tante cose: è diventato il lavoro che voglio fare. Un giorno mi chiesero di fare degli straordinari, avevo già lavorato nove ore, ma accettai: ero così contento che dopo andai al lago con la mia compagna e mio figlio. Per me è bellissimo. Sto cercando di insegnare queste cose al mio bimbo».

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Attualità

Gli spaccaossa miserabili

Articolo pubblicato su “La Sestina“, il quotidiano online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagii

Fratturavano ossa a vittime consenzienti usando dischi di ghisa e blocchi di cemento per poi truffare le compagnie e riscuotere i premi assicurativi. È il quadro di disperazione e miseria svelato dagli uomini della Squadra mobile di Palermo e Trapani nell’operazione “Tantalo Bis” che ha portato all’arresto di 42 persone, tra cui un avvocato che avrebbe curato le questioni legali. L’operazione, condotta dalla Procura della Repubblica di Palermo e coordinata dai procuratori aggiunti Sergio Demontis ed Ennio Petrigni, coinvolgerebbe un centinaio di complici appartenenti alla rete della banda specializzata in frodi assicurative. La Guardia di Finanza, inoltre. ha sequestrato beni mobili, immobili e disponibilità finanziarie agli indagati per un valore stimato di oltre mezzo milione di euro.

Il sistema – Le vittime erano ai margini della società afflitte da problemi economici, malattie mentali o tossicodipendenze, adescate dalla banda con la promessa di un guadagno sui 300-400 euro. Quindi i colpi a pesi da palestra o mattoni per procurare le menomazioni. Che dovevano essere il più realistiche possibile per poter truffare i medici delle compagnie assicurative e ottenere premi che oscillavano tra i 100 e i 150mila euro l’uno. Le lesioni interessavano braccia e gambe, con danni anche gravi che costringevano le persone coinvolte alle stampelle e alla carrozzina per mesi. I casi registrati sono oltre sessanta.

Il precedente – L’operazione appartiene a un filone di indagini partite nel gennaio del 2017 e che ha portato l’estate scorsa all’arresto di 11 persone, tra cui un’infermiera dell’ospedale Civico di Palermo che somministrava anestetici per lenire il dolore delle fratture. All’epoca gli inquirenti accertarono attraverso pedinamenti e analisi dei tabulati telefonici che Hadry Yakoub, 22 anni, ritrovato tumefatto sul ciglio di una strada palermitana, non era vittima di un pirata della strada. Il tunisino era morto per le lesioni. Era morto per «guadagnare qualcosa», come emerse da un’intercettazione tra due complici.

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Attualità Biscotti

Sulle periferie romane avete rotto il cazzo

Ogni volta che qualche residente delle periferie romane diventa protagonista di un atto di disobbedienza civile, c’è come una sensazione di scalpore, come se nessuno da quelle zone potesse avere un pensiero strutturato e critico. È una sensazione che ho percepito, soprattutto stando fuori Roma, anche sul caso dell’adolescente che ha espresso il suo dissenso in faccia agli affiliati di Casapound a Torre Maura, nella periferia sud-est di Roma, dopo le proteste per il trasferimento in zona di alcune famiglie di etnia rom.

Non è un discorso su quanto accaduto in quelle zone dimenticate dalle istituzioni quanto dai cittadini, a definire gli avvenimenti ci ha già pensato quel ragazzetto per fortuna. Parlo proprio dell’impressione che si ha quando accadono episodi simili, quando la veracità supera il significato dietro certi avvenimenti. Nel caso di Torre Maura, il 15enne che sfida i neofascisti è una leggera e forte nota di profumo in un mare di letame, con questo scalpore destato da non si sa bene cosa.

L’estate scorsa è successa la stessa cosa, con il caso di Ivano che in diretta su La7 accusò i manifestanti neofascisti accorsi fuori dal centro di asilo di Rocca di Papa di cavalcare gli eventi a fini di consenso. Anche in quel caso ho avuto sempre la stessa impressione: l’elemento folkloristico supera il significato. E questa impressione me l’hanno data gli stessi con cui ce l’ho scrivendo queste povere righe: una precisa parte della società che è cieca rispetto a chi vive fuori dal salotto. Che si dice zoppo, ma va a correre. E non sono i “furbetti” dei comuni, ma i “ciechi” della politica. C’è da dirgli “sveglia”: nelle disastrate periferie romane, dove la dispersione scolastica e le problematiche socio-economiche scandiscono le giornate di molti, c’è vita. E pensiero. Anche politico.

Avete rotto il cazzo, concedetemelo, a pensare il contrario solo perché serve a rinforzare certi preconcetti che, nel caso dei soggetti politici e istituzionali coinvolti questo processo, servono a coprirsi dietro al paravento di una responsabilità mancata. Tradotto, cari “ciechi”: vi dimenticate delle periferie salvo parlarne quando sbucano a dirvi che esistono nonostante le strade con pochi marciapiedi, gli stessi dove il pane viene sprecato. Lo fate fino alle prossime elezioni, quando ritorna la memoria. Tacete, sprofondati in comode poltrone bianche. Fatelo, per favore.

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Attualità Biscotti

Candreva azzecca un cross

Sono interista e Antonio Candreva non è uno dei giocatori che brilla per le prestazioni sul campo. Quando viene schierato sulla fascia i suoi cross non suscitano emozioni né occasioni da rete. Eppure il gesto che il calciatore romano ha fatto, pagare la retta della mensa a una bambina in una asilo di Verona, è un cross decisamente azzeccato. Un piccolo gesto, ma importante, che ha fatto il giro del mondo e si scaglia contro il freddo della burocrazia che trova in un clima politico italiano preciso un terreno fertile per proliferare.

«Eh vabbè, ma tanto quello, Candreva, guadagna milioni all’anno. Deve farlo», il commento medio. E quindi? Non c’è niente di scontato, tantomeno di dovuto. Questo gesto di solidarietà, che richiama a una vicinanza rispetto a temi sociali come, in questo caso, l’inclusione sociale dei bambini nelle scuole, a prescindere dall’etnia di appartenenza, è sempre stato triste vedere un bambino escluso a scuola, qualunque sia il motivo. Il gesto del calciatore di Tor De’ Cenci verso quella bambina destinata da a pranzi a base di tonno e cracker sulla scia che “eseguire” è più giusto, e forse più facile, di “integrare”, è un bel gesto. Punto.

Che risveglia pure un senso di comunità, se si vuole. Candreva di traversoni simili ne aveva già fatti, come quando contribuì a sostenere le vittime del sisma che colpì l’Aquila. In questi giorni ne ha azzeccato un altro, di traversone. Anzi: forse il termine “azzeccato” è inappropriato poiché legato al caso, al fortuito. Qui siamo davanti a un’intenzione. Candreva ce l’ha avuta, questa intenzione. Ce l’ha avuta “di questi tempi”. «Ma non ho ancora fatto niente», dice. E va bene, Antò, un cross alla volta.

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Gulliver, quando l’utopia diventa realtà

Finanziare progetti di solidarietà e reintegrazione sociale, correndo. Questo l’obiettivo di #RUN4THEFUTURE, iniziativa della cooperativa sociale “Gulliver” di Varese che, lo scorso 7 aprile, ha organizzato una raccolta fondi legandosi alla Milano Marathon attraverso il Charity Program dell’evento.

Alla competizione podistica hanno partecipato 322 persone, impegnate a correre i 42 chilometri, due in solitaria e gli altri in staffetta, per completare l’arredo della Cascina Redaelli. Nella sede in località Bregazzana, l’associazione svolge attraverso tre delle sue 8 comunità terapeutiche attività di assistenza legate al recupero e alla cura di persone affette da malattie psichiatriche o in condizioni di tossicodipendenza.

Grazie ai fondi raccolti l’anno scorso durante il medesimo evento, dieci ospiti hanno ottenuto una camera rinnovata. Ora, l’obiettivo è di rinnovarla per tutti i 55 ospiti della struttura. Attualmente, tramite “Rete del dono”, il centro ha raccolto oltre 41mila euro, superando del 10 per cento la cifra stabilita.

 

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Le vie della droga portano in Duomo

Ho pubblicato questo articolo sul numero 7 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – ma ripaga gli sforzi di tutti noi

Colonne di San Lorenzo, giovedì universitario. In un chiosco, musica ad alto volume e alcol a pochi euro. Incorniciato in una santella, le luci riflettono il dipinto di un Cristo con lo sguardo rivolto ai passanti.

Sotto i porticati, l’indice e il medio della mano destra di un ragazzo di origine maghrebina sfiorano il dorso dell’altra mano, come a spalmare una crema invisibile. È un segnale per chi è dall’altra parte del marciapiede. Significa che gli servono 20 euro di erba da piazzare. Dopo qualche indicazione in arabo, un secondo ragazzo mette mano in un vaso sul ciglio della strada, nascondiglio di fortuna per piccole quantità di droga. Dallo sguardo sacro del dipinto a quello di una telecamera a circuito chiuso, passano di mano i soldi, quindi la dose. La contrattazione è finita, tra lo scampanellio del tram numero 3 e un nuovo cliente da accontentare.

Il giovane fa parte di un gruppo onnipresente in piazza, una decina di nordafricani per i quali non conta che giorno sia. Ci saranno nel weekend come nei feriali, a occupare il gradino più basso della filiera dello spaccio di droga a Milano. Come loro, in migliaia fanno parte di una rete sviluppata dalle organizzazioni criminali in modo capillare. Una mappa di vizio e affare che frutta alle mafie profitti enormi grazie al traffico di stupefacenti tra cui marijuana e hashish, sostanze tra le più consumate e “accettate”.

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Le colonne di San Lorenzo, una delle piazza di spaccio milanesi che non chiude mai

Milano è al centro del narcotraffico europeo e lo spaccio delle due sostanze rappresenta una fetta consistente degli affari, secondo solo a cocaina ed eroina. I fatti di cronaca confermano la centralità della marijuana nel consumo e nel contrasto al narcotraffico; dall’arresto di una donna gambese, considerata a capo di un gruppo di connazionali che controllavano lo spaccio nella stazione Centrale, fino ai sequestri nelle scuole lombarde. Secondo la relazione del 2017 pubblicata dalla direzione centrale antidroga, la marijuana e l’hashish sequestrati in Lombardia compongono insieme il 17,4 per cento del livello nazionale. Dal Viminale, in particolare, emerge un dato significativo: l’aumento della quantità sequestrata. Nel 2017 c’è stato un incremento del 330 per cento rispetto all’anno precedente. L’andamento su base decennale, inoltre, evidenzia i grossi quantitativi che circolano nelle strade milanesi: 4,5 tonnellate sequestrate, 16 volte la cifra del 2008 (278 chilogrammi).

Dietro ai numeri c’è un sistema che nutre uno Stato parallelo i cui profitti sono difficili da quantificare. Stando allo studio dell’organizzazione israeliana Seed, che monitora il prezzo della marijuana nel mondo, a Milano un grammo costa 8,85 euro. Tuttavia, la sostanza in strada viene più del doppio. Da Porta Ticinese a piazza Leonardo, dove ha sede il Politecnico di Milano, la media per grammo è 20 euro, con picchi di 25-30 se si tra ta di qualità con concentrazione più alte di Thc. Perché? Secondo fonti investigative i prezzi «li fa la piazza e soprattutto quanti soldi ci sono nelle tasche di chi compra». Le dinamiche che gonfiano i costi, in un sistema dove è l’accordo criminale a suggellare gli affari, «sono legate alla logistica delle rotte internazionali dove tutto ha un prezzo. La gestione del traffico di marijuana è complicata da fattori logistici: per l’erba serve spazio, è voluminosa e i grossi magazzini fuori dalle aree industriali, da Bruzzano a Quarto Oggiaro fino a Baggio e la Barona, sono cruciali. L’odore è un altro problema per cui molta marijuana viene trattata con sostanze chimiche. Gli albanesi coprono l’odore dell’erba con lacche spruzzate allo scopo di migliorarne anche l’aspetto e il colore. In molti casi le sostanze rintracciate sui campioni di erba analizzati non sono riconosciute nelle liste di laboratorio».

Secondo le ricostruzioni dei flussi calcati dagli investigatori, il trattamento della marijuana ha aumentato il giro d’affari del fai-da-te perché «basato su un rapporto fiduciario con chi produce, di solito in piccole quantità e senza bagnare lo stupefacente». La variazione dei prezzi risiede anche nel trasporto della sostanza dalle aree di coltivazione a quelle di vendita. Le rotte principali verso Milano sono l’Albania per la marijuana e il Marocco per l’hashish. La rotta maghrebina fa arrivare via Gibilterra e Spagna hashish e oppiacei in Europa. I corrieri utilizzano sia piccole imbarcazioni che navi commerciali, i cui container arrivano ogni giorno nei porti di Genova, Gioia Tauro e Trieste.

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Klement Balili, il “Pablo Escobar” albanese

Coltivare in Albania costa meno: la tratta Tirana-Milano vale milioni di euro per cosche calabresi e cupole albanesi. Non è un caso che il “Pablo Escobar dei Balcani”, Klement Balili, consegnatosi lo scorso gennaio alle autorità balcaniche in quanto presunto reggente di uno dei gruppi shqiptar al centro del narcotraffico, sia stato avvistato più volte a Milano per puntate di shopping in Galleria tra un affare e l’altro. «Le organizzazioni albanesi utilizzano il canale di Otranto per far arrivare pacchi impermeabili sulle coste pugliesi. Una volta scaricate, le partite vengono poste nei furgoni e traspor- tate verso Milano. In passato, con il traffico di sigarette, lo scambio dei pacchi dai furgoni alle “veloci” (automobili più rapide negli spostamenti, ndr) permetteva di individuare e sequestrare i carichi. Oggi, invece, i furgoni non si fermano, arrivano a destinazione rendendo complesso intercettarli».

L’aumento finale dei prezzi va calco- lato contando le fasi successive. «Pagato chi ha organizzato il viaggio e scaricato dall’Albania, va saldato chi trasporta, il grossista e quindi lo spacciatore». Secondo gli investigatori, questo sistema rende la piazza “aperta” e in un certo senso «tutti mangiano, specie sullo spaccio di cocaina. In ogni caso il sistema è gestito dalla ‘ndrangheta, che negli anni si è consolidata a Milano, controllando l’intera rete di traffico». Così nella filiera della marijuana milanese si incrociano sfruttatori e sfruttati. Due categorie distanti che non si conoscono, ma che sono legate da un rapporto criminale. Dove ci sono persone come A., 21 anni, muscoloso con sguardo incosciente. In Italia da un anno, vende cianfrusaglie in zona Città Studi dopo l’arrivo dal Senegal e il passaggio dalla Francia. «Sono venuto con l’aereo», tiene a sottolineare. In attesa dei documenti, su richiesta, rimedia qualche extra con lo spaccio di hashish. «Me lo porta un africano, la prende da un italiano che gestisce tutto e d’estate ci fa andare a lavorare sulle spiagge adriatiche. Così mi assicuro l’affitto durante i mesi estivi, quando Milano è vuota». A. prende la metà da ogni dose di hashish venduta, rimanendo in un gruppo di cavallini ai comandi del capopiazza. «Ho provato a fare il lottatore di laamb (la lotta tradi- zionale senegalese, ndr) ma i miei genitori me l’hanno vietato per- ché pericoloso». Spacciare sarebbe da meno? «Vorrei andare a lavorare. Ce la farò».