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mini-intervista ad Andrea Orlando del Pd

Ho seguito il Partito Democratico insieme a Bernardo Cianfrocca per le elezioni europee. Questa intervista non programmata è una delle tante cose che abbiamo fatto quella sera insieme ai nostri colleghi. A ridosso degli exit-poll

 

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Torrenova, l’altra Roma

Articolo pubblicato su “La Sestina”, il quotidiano online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Leggi tutti gli altri articoli cliccando qui

Via della Tenuta di Torrenova è poco più di un chilometro di strada nella periferia sud-est della Capitale, tra Tor Vergata e Tor Bella Monaca. La strada è costeggiata da tre complessi di edilizia popolare che i residenti chiamano “case” e differenziano per i colori con cui sono state verniciate dopo la costruzione avvenuta a partire dagli anni Settanta: le rosse, le bianche e le verdi. Qui c’è un’altra Roma, dove alle minacce di stupro di Casal Bruciato e ai panini gettati in strada di Torre Maura si contrappongono i gesti di accoglienza di un centinaio di persone che hanno organizzato turni per proteggere una madre rom e le sue figlie dagli estremisti di destra locali.

La vicenda – Domenica 4 maggio alcuni residenti delle case verdi e i neofascisti di Azione Frontale si sono dati appuntamento sotto il portone di Suzana, una donna di origine rom che vive dal 28 marzo nel complesso popolare insieme alle quattro figlie. La colpa della «zingara» è stata quella di «superare gli italiani nelle graduatorie», vedendosi assegnare regolarmente un alloggio dal Comune. La dimostrazione non aveva ottenuto autorizzazioni, ma il gruppo composto da neofascisti e residenti ha deciso comunque di sfilare, con le camionette delle Forze dell’ordine a vigilare. Quindi gli insulti e le minacce da sotto il balcone. «Zingari di merda», canta a mò di coro un uomo. «Prima gli italiani», il motto generale.

«Hanno minacciato di mettermi una bomba in casa» – «Da quando mi hanno assegnato l’alloggio i miei figli sono stati insultati. “Andate via”, gli dicevano. Hanno minacciato di mettermi una bomba in casa», racconta Suzana ad Ala News. È la stessa donna a confermare come la tensione sia esplosa poche settimane prima della protesta, quando i suoi figli hanno avuto un litigio con altri ragazzi della zona. Sarebbe bastato questo per i residenti delle case verdi per andare sotto il balcone della donna, insultandola e mostrandole un sacco dell’immondizia nera come «posto che ti spetta».

La risposta – Nelle ore successive all’accaduto almeno un centinaio di persone si sono radunate nello stesso cortile, ma non per continuare con le minacce bensì per difendere Suzana. Dopo una serie di messaggi via WhatsApp, diverse sigle di sinistra, dai sindacati alle mamme di quartiere fino all’Anpi locale, hanno creato una rete di solidarietà organizzando turni di veglia davanti alla Scala I, dove vive la famiglia di Suzana. «Come Asia Usb abbiamo voluto riportare l’attenzione sui problemi reali – spiega Maria Vittoria Molinari, presente alla manifestazione – Mentre i fascisti spostano l’attenzione sfruttando i problemi dei più deboli, noi vogliamo che si parli di questioni cruciali come la mancanza di alloggi popolari. Sono dinamiche particolari e delicate per cui i residenti prima litigano coi rom e poi vengono messi l’uno contro l’altro. Nelle popolari ci sono più nuclei che vivono. La mancanza delle case popolari – continua – dovrebbe essere il punto su cui le istituzioni dovrebbero agire. Caserme dismesse, case di un tempo sede di enti ed ex-uffici rimangono disabitati».

Uno dei volantini diffusi a Torrenova da Azione Frontale che ritrae Molinari, una delle partecipanti della contromanifestazione antifascista

I volantini – Dopo la contro-manifestazione c’è stata anche una ritorsione: l’affissione di volantini che ritraggono la stessa Molinari con un testo volto a screditarne l’operato e quello di chi ha partecipato al gesto di solidarietà nei confronti di Suzana. I volantini sono stati diffusi in tutto il quartiere di Torrenova a firma “Azione Frontale”. Tuttavia, i presìdi delle donne antifasciste continuano. «Siamo mamme, insegnati e dirigenti sindacali parte di una rete di coordinamento presente in tutto questo municipio – conclude Molinari – Siamo anche diverse sul piano politico, ma abbiamo una visione aperta per cui nelle nostre periferie questa gente non deve attecchire e devono esserci altre priorità».

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Fatebenefratelli, affari con distributori di caffè abusivi: coinvolto il Cral

Articolo pubblicato su “La Sestina”, il quotidiano online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. (Crediti copertina: Milano Post)

Una vicenda torbida, l’ennesima, per l’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Per 7 anni il Cral, il circolo ricreativo per i dipendenti, avrebbe guadagnato quasi 500mila euro dalle macchinette del caffè abusive installate in ospedale. Dai fascicoli depositati in Tribunale emerge come il circolo avrebbe lucrato intestandosi tra l’aprile del 2011 e il gennaio dell’anno scorso i 36 distributori, 24 di bevande calde e 14 di snack.

La vicenda – Stando all’inchiesta, non ci sono documenti che attestino la concessione per l’installazione e la gestione delle macchinette. «Manca la prova di qualsiasi rapporto contrattuale tra il Fatebenefratelli e il Cral», scriveva il giudice Rosita d’Angiolella già nel 2017. Tuttavia i distributori sono rimasti lì per anni, a riscuotere i soldi di un affare quasi perfetto: non venivano pagate l’elettricità né l’acqua consumate dai distributori perché a carico dell’azienda ospedaliera.

Le cose iniziano a cambiare nel gennaio del 2016, con il cambio ai vertici dell’ospedale. Sotto la guida del direttore generale Alessandro Visconti arriva la denuncia relativa all’abusivismo nelle aree ristoro del nosocomio. I legali del Fatebenefratelli, guidati dall’avvocato Sergio Carnevale, chiedono al Cral di pagare 475.125 euro come risarcimento danni per l’installazione abusiva, 101.821 per danno emergente provocato dal consumo di energia e 307.303 per lucro cessante. Attualmente sono iniziati gli sgomberi delle macchinette abusive e l’insediamento del gruppo vincitore del bando pubblicato nel 2016 per l’assegnazione degli spazi e la gestione.

Il precedente – Il Cral è stato creato con lo scopo di promuovere attività sociali e culturali ed è da sempre una costola dell’attività sindacale dell’ospedale. Attualmente, il gruppo conta oltre 400 iscritti che pagano 15 euro all’anno come quota d’iscrizione. Nel 2009, sette sindacalisti alla guida del circolo ricreativo furono coinvolti in presunte irregolarità circa spese non documentate. Una settimana bianca che superava i 6mila euro, regali per 5mila euro, serate teatrali del valore di 1.839 euro e ancora spese per multe, ricariche e rifornimenti di carburante. Tutte presunte spese ingiustificate già contestate dieci anni fa dai revisori dei conti.

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«Io, fuori da una gang di latinos»

Articolo pubblicato su “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Scarica e leggi il magazine in formato digitale cliccando qui

Due giorni dopo il suo diciottesimo compleanno Javier, nome di fantasia, finisce in carcere per associazione a delinquere. Viene arrestato alle 4 del mattino con un’ordinanza di custodia che coinvolge altre 25 persone legate come lui alla Ms13, la Mara Salvatruchauna, una delle gang latine più feroci di Milano. «Già un blitz è movimentato, immagina con i postumi di un compleanno», scherza. Oggi 23enne, chiede l’anonimato «non per le ritorsioni», spiega, «ma per non intaccare la vita di ora». Arrivato in Italia nel 2000 con il ricongiungimento, Javier entra presto in una pandilla di Milano. In sede processuale, i giudici del tribunale minorile preferiscono sospendergli la pena con messa in prova. «Con gli altri in carcere abbiamo deciso di cambiare, ma solo io entro in comunità», racconta Javier. Che, uscito, ritrova i suoi compagni di cella. Una bevuta la prima volta, poi le richieste di tornare come prima. Lui rifiuta e continua il suo percorso tra difficoltà, sedute psicologiche e la responsabilità di una scelta. Ma non basta, insistono con maniere forti, questi amici. «Che sono gli stessi dei fatti accaduti alla stazione di Villapizzone, dove aggrediscono un ferroviere a colpi di machete, tranciandogli un braccio».

La violenza piega intere comunità a rimanere in silenzio e ad avere paura, legando l’Italia a un filo che porta dritto in San Salvador, dove i capi proclamano dalle carceri i reggenti di quelli che considerano i vicereami tra Lombardia e Liguria. Il fenomeno delle ritorsioni ai parenti in Salvador è così centrale che, secondo fonti delle comunità latine milanesi, lo stesso corpo diplomatico italiano ha spedito alle autorità salvadoregne un avviso circa le minacce che partivano dall’Italia. Queste dinamiche complicano il lavoro dei professionisti del sociale nel tutelare la scelta di chi vuole allontanarsi da violenza e morte. «Andavo nelle aree dove si ritrovavano vari gruppi, come i Latin Kings», racconta Massimo Conte di Codici Ricerche. «I salvadoregni arrivavano per fuggire dalla “luce verde”, come quella del semaforo, per cui qualcuno, da un affiliato rivale fino a un paramilitare della sombra negra, può ucciderti. Chi è riuscito ad avere una vita pulita ha fatto tutto in incognito perché chi era un ex doveva gestire il suo esserlo a causa delle ritorsioni. C’è un percorso di involuzione per cui quello che facevo negli anni Duemila oggi non posso più farlo. Servirebbe un investimento politico e istituzionale che si fa fatica a vedere», conclude Conte.

Le nuove generazioni subiscono il fascino di storie maledette e la mancata integrazione dopo il ricongiungimento fa il resto. Oggi le dinamiche di appartenenza colmano un vuoto e portano molti giovani sudamericani a una vita criminale. È successo così anche a Javier, che stava sotto l’ala protettrice di Kamikaze, capo storico della 13. «Ero piccolo e gli servivo. Mi portava sempre con lui, anche in vacanza. Sono cresciuto senza un padre e vedevo in lui un sostituto, mia madre era terrorizzata». Solo una lettera di Kamikaze dal carcere, in cui lo ringrazia per non aver fatto il suo nome in un processo per due rapine, assicura a Javier di allontanarsi dalla strada. «La messa in prova me la sono guadagnata lavorando in un centro diurno per disabili», sottolinea Javier, «stare con queste persone mi ha cambiato per sempre. Arrivo la mattina e sento che mi aspettano, che sono importante per loro. Ti ringraziano con uno sguardo per un bicchiere d’acqua. Capisci tante cose: è diventato il lavoro che voglio fare. Un giorno mi chiesero di fare degli straordinari, avevo già lavorato nove ore, ma accettai: ero così contento che dopo andai al lago con la mia compagna e mio figlio. Per me è bellissimo. Sto cercando di insegnare queste cose al mio bimbo».

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L’omaggio di Cannes ad Agnès Varda

Articolo pubblicato su “La Sestina“, il quotidiano online della Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi”

Come ogni anno il Festival di Cannes attira l’attenzione dei cinofili con la pubblicazione della locandina della kermesse sulla costa azzurra, giunta quest’anno alla sua 72esima edizione. Il poster rilasciato dagli organizzatori è un omaggio alla regista belga Agnès Varda, premio Oscar alla carriera nel 2018, scomparsa a Parigi lo scorso mese a causa di un tumore. Contornato di sfumature arancioni, l’artwork richiama le atmosfere estive di Pointe Courte, il film del 1955 che consacrò l’artista tra gli avanguardisti del nuovo corso del cinema francese. L’immagine cattura Varda in una rocambolesca sessione di riprese sul set della pellicola, prima delle tredici portate dall’autrice al Festival, presentata proprio a Cannes nel 1955. Non è ancora chiaro quali iniziative saranno dedicate alla regista durante questa edizione, né sono giunte anticipazioni riguardo proiezioni speciali dedicate.

Festival de Cannes

@Festival_Cannes

All the way up. As high as she could go.
Agnès Varda will be the inspirational guiding light of this 72nd edition of the Festival!
La Pointe courte © 1994 Agnès Varda and her children – Montage & design : Flore Maquin.
More info: http://festival-cannes.com/en/infos-communiques/communique/articles/the-official-poster-of-the-72nd-cannes-international-film-festival 

Regista innovativa – Di Varda, è certo il contributo e il suo impegno nel e per il cinema. Nata a Bruxelles nel 1928 da madre francese e padre greco, Agnès inizia la sua carriera artistica a Parigi lavorando come fotografa al Théâtre national populaire, allora diretto da Jean Vilar. Nel tempo la passione e gli amori, quello tormentato con il costumista Antoine Boursellier, con cui ebbe un figlio poi riconosciuto dal suo secondo marito, quello della vita, il collega Jacques Demy, padre del suo secondo bambino. Eppure il tempo per Varda sembra essere trascorso in fretta, tanto che negli anni è rimasto inalterato il suo taglio di capelli “a caschetto”, marchio estetico inconfondibile, frutto di una decisione presa a 18 anni quando cambiò il suo nome da Arlette ad Agnès. Sempre libera, lei. Che dopo anni trascorsi a catturare l’immagine passa al movimento, girando a budget ridotto il suo primo lungometraggio, Pointe Courte, la pellicola che a detta dei critici apre al nuovo gusto francese in fatto di cinema. Ambientazioni semplici e suggestioni dal reale, vissute da personaggi che ricalcano un modo di essere che è linguaggio innovativo rispetto alla tradizione filmografica precedente.

La pellicola iconica – Lo stile del film è incentrato proprio su questa freschezza, di cui Varde si fa portavoce partendo proprio dallo stile smaliziato con una trama coinvolgente. Siamo nel quartiere di Pointe Courte a Sète (città nel sud della Francia dove la stessa Varde si trasferì con la famiglia ndr), una coppia di sposi, interpretata da Silvia Monfort e Philippe Noiret, vanno in vacanza nel paese di lui, esplorando il loro amore fragile e mettendo in discussione un matrimonio con qualche problema. La scenografia è contraddistinta da ambientazioni mediterranee in cui respirano umanità pescatori, donne vivaci e bambini intenti a giocare tra i gatti randagi. In 65 anni di creatività, l’omaggio di Cannes a Varda è doveroso e assume i contorni di una meditazione del pubblico sulla sua capacità di osare. Una qualità che proprio nella locandina di Cannes rivive e fa rivivere ciò che le valse la notorietà artistica, ponendola al centro delle sperimentazioni future del cinema francese, di cui rimarrà l’unica regista donna. Regista, prima di tutto.

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Le vie della droga portano in Duomo

Ho pubblicato questo articolo sul numero 7 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – ma ripaga gli sforzi di tutti noi

Colonne di San Lorenzo, giovedì universitario. In un chiosco, musica ad alto volume e alcol a pochi euro. Incorniciato in una santella, le luci riflettono il dipinto di un Cristo con lo sguardo rivolto ai passanti.

Sotto i porticati, l’indice e il medio della mano destra di un ragazzo di origine maghrebina sfiorano il dorso dell’altra mano, come a spalmare una crema invisibile. È un segnale per chi è dall’altra parte del marciapiede. Significa che gli servono 20 euro di erba da piazzare. Dopo qualche indicazione in arabo, un secondo ragazzo mette mano in un vaso sul ciglio della strada, nascondiglio di fortuna per piccole quantità di droga. Dallo sguardo sacro del dipinto a quello di una telecamera a circuito chiuso, passano di mano i soldi, quindi la dose. La contrattazione è finita, tra lo scampanellio del tram numero 3 e un nuovo cliente da accontentare.

Il giovane fa parte di un gruppo onnipresente in piazza, una decina di nordafricani per i quali non conta che giorno sia. Ci saranno nel weekend come nei feriali, a occupare il gradino più basso della filiera dello spaccio di droga a Milano. Come loro, in migliaia fanno parte di una rete sviluppata dalle organizzazioni criminali in modo capillare. Una mappa di vizio e affare che frutta alle mafie profitti enormi grazie al traffico di stupefacenti tra cui marijuana e hashish, sostanze tra le più consumate e “accettate”.

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Le colonne di San Lorenzo, una delle piazza di spaccio milanesi che non chiude mai

Milano è al centro del narcotraffico europeo e lo spaccio delle due sostanze rappresenta una fetta consistente degli affari, secondo solo a cocaina ed eroina. I fatti di cronaca confermano la centralità della marijuana nel consumo e nel contrasto al narcotraffico; dall’arresto di una donna gambese, considerata a capo di un gruppo di connazionali che controllavano lo spaccio nella stazione Centrale, fino ai sequestri nelle scuole lombarde. Secondo la relazione del 2017 pubblicata dalla direzione centrale antidroga, la marijuana e l’hashish sequestrati in Lombardia compongono insieme il 17,4 per cento del livello nazionale. Dal Viminale, in particolare, emerge un dato significativo: l’aumento della quantità sequestrata. Nel 2017 c’è stato un incremento del 330 per cento rispetto all’anno precedente. L’andamento su base decennale, inoltre, evidenzia i grossi quantitativi che circolano nelle strade milanesi: 4,5 tonnellate sequestrate, 16 volte la cifra del 2008 (278 chilogrammi).

Dietro ai numeri c’è un sistema che nutre uno Stato parallelo i cui profitti sono difficili da quantificare. Stando allo studio dell’organizzazione israeliana Seed, che monitora il prezzo della marijuana nel mondo, a Milano un grammo costa 8,85 euro. Tuttavia, la sostanza in strada viene più del doppio. Da Porta Ticinese a piazza Leonardo, dove ha sede il Politecnico di Milano, la media per grammo è 20 euro, con picchi di 25-30 se si tra ta di qualità con concentrazione più alte di Thc. Perché? Secondo fonti investigative i prezzi «li fa la piazza e soprattutto quanti soldi ci sono nelle tasche di chi compra». Le dinamiche che gonfiano i costi, in un sistema dove è l’accordo criminale a suggellare gli affari, «sono legate alla logistica delle rotte internazionali dove tutto ha un prezzo. La gestione del traffico di marijuana è complicata da fattori logistici: per l’erba serve spazio, è voluminosa e i grossi magazzini fuori dalle aree industriali, da Bruzzano a Quarto Oggiaro fino a Baggio e la Barona, sono cruciali. L’odore è un altro problema per cui molta marijuana viene trattata con sostanze chimiche. Gli albanesi coprono l’odore dell’erba con lacche spruzzate allo scopo di migliorarne anche l’aspetto e il colore. In molti casi le sostanze rintracciate sui campioni di erba analizzati non sono riconosciute nelle liste di laboratorio».

Secondo le ricostruzioni dei flussi calcati dagli investigatori, il trattamento della marijuana ha aumentato il giro d’affari del fai-da-te perché «basato su un rapporto fiduciario con chi produce, di solito in piccole quantità e senza bagnare lo stupefacente». La variazione dei prezzi risiede anche nel trasporto della sostanza dalle aree di coltivazione a quelle di vendita. Le rotte principali verso Milano sono l’Albania per la marijuana e il Marocco per l’hashish. La rotta maghrebina fa arrivare via Gibilterra e Spagna hashish e oppiacei in Europa. I corrieri utilizzano sia piccole imbarcazioni che navi commerciali, i cui container arrivano ogni giorno nei porti di Genova, Gioia Tauro e Trieste.

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Klement Balili, il “Pablo Escobar” albanese

Coltivare in Albania costa meno: la tratta Tirana-Milano vale milioni di euro per cosche calabresi e cupole albanesi. Non è un caso che il “Pablo Escobar dei Balcani”, Klement Balili, consegnatosi lo scorso gennaio alle autorità balcaniche in quanto presunto reggente di uno dei gruppi shqiptar al centro del narcotraffico, sia stato avvistato più volte a Milano per puntate di shopping in Galleria tra un affare e l’altro. «Le organizzazioni albanesi utilizzano il canale di Otranto per far arrivare pacchi impermeabili sulle coste pugliesi. Una volta scaricate, le partite vengono poste nei furgoni e traspor- tate verso Milano. In passato, con il traffico di sigarette, lo scambio dei pacchi dai furgoni alle “veloci” (automobili più rapide negli spostamenti, ndr) permetteva di individuare e sequestrare i carichi. Oggi, invece, i furgoni non si fermano, arrivano a destinazione rendendo complesso intercettarli».

L’aumento finale dei prezzi va calco- lato contando le fasi successive. «Pagato chi ha organizzato il viaggio e scaricato dall’Albania, va saldato chi trasporta, il grossista e quindi lo spacciatore». Secondo gli investigatori, questo sistema rende la piazza “aperta” e in un certo senso «tutti mangiano, specie sullo spaccio di cocaina. In ogni caso il sistema è gestito dalla ‘ndrangheta, che negli anni si è consolidata a Milano, controllando l’intera rete di traffico». Così nella filiera della marijuana milanese si incrociano sfruttatori e sfruttati. Due categorie distanti che non si conoscono, ma che sono legate da un rapporto criminale. Dove ci sono persone come A., 21 anni, muscoloso con sguardo incosciente. In Italia da un anno, vende cianfrusaglie in zona Città Studi dopo l’arrivo dal Senegal e il passaggio dalla Francia. «Sono venuto con l’aereo», tiene a sottolineare. In attesa dei documenti, su richiesta, rimedia qualche extra con lo spaccio di hashish. «Me lo porta un africano, la prende da un italiano che gestisce tutto e d’estate ci fa andare a lavorare sulle spiagge adriatiche. Così mi assicuro l’affitto durante i mesi estivi, quando Milano è vuota». A. prende la metà da ogni dose di hashish venduta, rimanendo in un gruppo di cavallini ai comandi del capopiazza. «Ho provato a fare il lottatore di laamb (la lotta tradi- zionale senegalese, ndr) ma i miei genitori me l’hanno vietato per- ché pericoloso». Spacciare sarebbe da meno? «Vorrei andare a lavorare. Ce la farò».

 

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Arresti e omicidi nella Napoli delle nuove faide

Articolo pubblicato su “La Sestina”, la testata online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”

Un arsenale, chili di stupefacenti e un distintivo falso della Guardia di Finanza. È quanto ritrovato dai Carabinieri di Napoli nella roccaforte del clan Sequino nel Rione Sanità, dove all’alba i militari hanno eseguito un blitz arrestando 30 persone ritenute affiliate alla famiglia. Durante le indagini, i militari hanno colto in flagranza di reato quattro persone, a cui sono stati sequestrati 1,3 chilogrammi di cocaina proveniente dal comune calabrese di San Luca. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione di stampo mafioso, estorsione, porto abusivo di armi e spaccio di stupefacenti. I reati sono aggravati da finalità e metodo mafiosi.

“Mesate” e scommesse a debito –  Gli investigatori hanno ricostruito l’attività criminale del clan nel centro storico della città. E’ stato portato alla luce il meccanismo d’uso della “cassa comune”, che serviva a pagare le cosiddette “mesate”,  i soldi che i boss corrispondevano alle famiglie degli affiliati detenuti. Scoperto anche il sistema del pizzo ai centri scommesse. I membri dei Sequino piazzavano giocate su eventi sportivi senza pagare le quote, salvo poi incassare le eventuali vincite. Nel fortino sono stati trovati anche un kalashnikov, cinque pistole, una mitragliatrice e tre fucili, oltre a 630 grammi di marijuana.

Colpiti anche i Vastarella – Nelle stesse ore, la Squadra Mobile della Polizia di Napoli ha colpito duramente anche la famiglia rivale dei Vastarella. A Guidonia, a sud est di Roma, è stato arrestato un membro di spicco del clan, già latitante, dopo una fuga rocambolesca. Inoltre sono state notificate due misure cautelari ad Antonio e Patrizio Vastarella, già agli arresti in carcere per il tentato omicidio ai danni di Giovanni Sequino.

 

La scia di sangue – L’operazione arriva in un momento di forte tensione tra i clan.  Solo nell’ultimo fine settimana nell’hinterland napoletano è stato insanguinato da due omicidi. Il primo sabato sera, a Mugnano, quando tra la folla è stato assassinato con un colpo di arma di fuoco alla nuca Giovanni Pianese, 63 anni, venditore ambulante occasionale nel mercato del pesce locale. Secondo gli inquirenti, l’uomo sarebbe stato ucciso per una vendetta trasversale nei confronti di suo figlio Saverio, vicino ai clan di Secondigliano e Scampia. La matrice della vendetta sembra essere anche al centro del secondo omicidio, avvenuto ad Acerra domenica 17 febbraio. Attorno alle 10, due uomini a bordo di uno scooter di grossa cilindrata hanno teso un agguato a Vincenzo Mariniello, 46 anni, capo clan dell’omonimo gruppo criminale. Dietro l’agguato ci sarebbe un regolamento di conti dovuto ai debiti contratti dal boss con alcuni clan locali. L’uomo è stato crivellato a colpi di arma da fuoco nel cortile della sua abitazione mentre cercava rifugio. Aveva ereditato la posizione nella cosca dal padre Gennaro, anche lui assassinato il 23 marzo del 2000 dai rivali De Sena-Di Fiore.

Faide e tradimenti –  All’epoca le due famiglie assoldarono un cecchino per poter uccidere Gennaro. Fu colpito a distanza, mentre era sul balcone di casa. La vendetta arrivò 6 anni dopo, quando suo fratello Antonio assassinò l’esponente del clan De Falco, Ciro. «Gesù ti consegna l’assassino di tuo fratello e tu che fai, non gli spari?», disse in un’intercettazione telefonica. Gli arresti di questa mattina non sono circoscritti al solo Rione Sanità, ma investono tutto il territorio napoletano.

Sempre sabato, infatti, è stato arrestato alle porte di Capodichino Ciro Rinaldi, 55 anni, detto «o’ Maùè», accusato di essere il mandante del raid avvenuto nel 2016 a Ponticelli che costò la vita al boss 24enne dei “barbudos”, Raffaele Cepparulo, e al 19enne Ciro Colonna, vittima bianca di camorra rimasto ucciso nell’agguato. La soffiata sulle informazioni utili alla posizione di Rinaldi sono arrivate da Anna De Luca Bossa, considerata fondatrice del primo clan gestito da sole donne, le “Pazzignane”, nome derivato dal rione Pazzigno dal quale provengono le affiliate.

La risposta del Sindaco – «Voglio congratularmi con i Carabinieri del Comando Provinciale di Napoli e con la magistratura napoletana per l’esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare per fatti gravi di camorra eseguite questa mattina nel quartiere Sanità – ha affermato il sindaco di Napoli Luigi de Magistris – .Grazie a queste attività la Sanità sarà progressivamente liberata dai tentativi del crimine di rallentare la rinascita di un quartiere dove la sua gente ha già scelto per la bellezza, lo sviluppo, la cultura e l’umanità».

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Il rugby non fa meta in città

Ho pubblicato questo articolo sul numero 4 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – e ripaga gli sforzi di tutti noi.

Il rugby in Italia soffre una crisi economica e federale che complica lo sviluppo della disciplina. Il panorama ovale di Milano non fa eccezione e rappresenta un paradosso. Stando ai dati del Comitato Fir Lombardia, Milano è sottorappresentata rispetto al numero di praticanti. Pur appartenendo alla regione col più alto numero di tesserati in Italia – 13.618 praticanti su 17.173 iscritti – e nonostante 36 club e 4.825 rugbisti, l’intera area metropolitana non ha un movimento competitivo. I professionisti che parlano meneghino sono sempre meno.

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Luca Morisi in azione con la maglia della Benetton Treviso nel 2013

Dei 31 azzurri selezionati per il Sei Nazioni 2019, appena 5 sono lombardi, con i soli Luca Morisi e Simone Ferrari cresciuti nel milanese ed emigrati alla Benetton Treviso. «I club migliori della Lombardia sono concentrati nel bresciano, dove il tessuto industriale fornisce investimenti», dicono dal Comitato. Milano è esclusa da quest’ottica. «Il Veneto esprime squadre ad alto livello perché ha una tradizione e una gestione tecnica migliore», aggiunge il presidente del Comitato lombardo Angelo Bresciani. Eppure il rugby milanese ha radici gloriose. Agli inizi del Novecento, quando lo sport si affermava come fenomeno di massa nelle città industriali, discipline come il rugby trovarono seguito col fiorire delle polisportive, tra cui l’Unione sportiva Milano. Stefano Bellandi si fece promotore della Fir e diffuse il gioco fondando, dopo la scissione dall’Ambrosiana, l’Amatori, società tuttora detentrice del record di scudetti vinti in Italia. Entrambi i club sono falliti e del passato rimane poco.

C’è il presente, però, come in via Padova, dove tra le insegne dei negozi etnici sbucano i pali del campo della Cus Milano rugby. La società ha inaugurato a dicembre lo spazio di via Cambini grazie a Insieme, progetto che ha aperto centri polifunzionali a Quarto Oggiaro, Segrate, Giuriati e Baggio. «Un piano realizzato con il Comune e l’impegno dell’ex nazionale Diego Dominguez», spiega Mario Smedile, responsabile delle relazioni pubbliche del Cus. L’impianto è parte della periferia, tra le più alte per numero di residenti stranieri.

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Una formazione della Unione Sportiva Milanese nel 1911. In piedi a sinistra Stefano Bellandi

«I ragazzi sono stati tolti dalla strada e dalle brutte compagnie. Provengono da famiglie che non si possono permettere una retta», dice Giuseppe Fulgoni, responsabile tecnico del Cus. Il carattere educativo del progetto non esclude la qualità tecnica. «Il rugby non è la prima scelta e c’è una capacità motoria limitata. La scuola in questo senso dà zero, non c’è progettualità».

 

Fulgoni affronta il nodo della mancata affermazione dei talenti: la gestione del deficit tecnico, lacuna che arriva fino in nazionale. «La specializzazione precoce è un problema», spiega Fulgoni. «Gioca solo chi è forte e ci si scorda degli altri, creando squilibri. Arrivano infortuni o percorsi diversi dal rugby e si rimane con i giocatori su cui si è puntato meno. Bisogna puntare sulla tecnica collettiva e smetterla di vincere a tutti i costi».

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La mossa difficile di Milano per assicurare il reddito di cittadinanza ai senzatetto

Articolo pubblicato su “La Sestina”, la testata online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” 

La buona intenzione c’è, ma i problemi non mancano. L’iniziativa del Comune di Milano di utilizzare la residenza fittizia per garantire il reddito di cittadinanza ai senzatetto potrebbe andare incontro a una serie di criticità. Da Palazzo Marino riconoscono che la gestione delle richieste delle persone senza fissa dimora potrebbe appesantire il lavoro degli uffici comunali a causa delle criticità legate alla residenza dei richiedenti, al controllo fiscale e alle mancate direttive ricevute dal ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico riguardo gli impieghi collettivi previsti dalla norma.

La residenza fittizia – Per far fronte al problema, il Comune ha previsto l’utilizzo della residenza fittizia come strumento utile a garantire il reddito di cittadinanza anche ai senza dimora aventi diritto. La residenza fittizia è in vigore da anni ed è sfruttata dai comuni per garantire alle persone senza un luogo fisso di avere un indirizzo di residenza dove poter ricevere documenti, posta ed essere rintracciate. Tuttavia, soltanto 200 comuni italiani su 8mila sfruttano questo istituto. Per ampliare le possibilità degli aventi diritto a presentare la domanda, il Comune aprirà entro fine febbraio 4 nuovi centri dove i senzatetto richiedenti potranno dialogare con il municipio e gestire le carte.

Le criticità su Milano – In generale, il reddito di cittadinanza presenta le stesse criticità per tutti i richiedenti. I comuni sono coinvolti in una comunicazione assente da parte del ministero, che non ha ancora inviato linee guida su come organizzare gli apparati interni. «Nonostante l’interesse e le domande pervenute, dagli uffici ci hanno fatto sapere che la macchina non è ancora avviata – spiega Martina Carnovale, portavoce dell’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino – Uno dei dubbi riguarda i progetti utili alla collettività previsti dal decreto, quelli che Di Maio ha chiamato volgarmente “lavori socialmente utili”». Tra le misure della legge, infatti, è previsto che i beneficiari del reddito prendano parte a lavori collettivi di diversa natura all’intero di strutture comunali per un totale di 8 ore settimanali. «Chi pagherà l’assicurazione a queste persone che presteranno servizi alla collettività? – si chiede Carnovale – Chi si occuperà dei corsi di formazione utili al loro svolgimento? Nessuno ce lo ha ancora detto». L’altro punto riguarda i controlli per scovare chi godrà in maniera illecita del reddito di cittadinanza. Per risolvere il problema, la legge ha previsto controlli fiscali incrociati svolti dai comuni, che potranno visionare le dichiarazioni Isee dei richiedenti. «Un lavoro enorme per un comune vasto come Milano – continua Carnovale – Oltre alle domande di assegnazione andranno gestiti anche questo tipo di controlli sul territorio. Un lavoro che rischia di appesantire la burocrazia comunale».

Conflitto – Così come tra cittadini italiani e stranieri con residenza stabile, l’assegnazione del sussidio potrebbe aprire una spaccatura anche all’interno della comunità di senzatetto. La legge che ha approvato il reddito di cittadinanza prevede l’assegnazione del sussidio agli stranieri residenti purché in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due continuativi. Per chi non ha una residenza, però, il problema resta dimostrare che il proprio soggiorno rientri nelle richieste avanzate. «Un conflitto creato dalla legge stessa», conclude Carnovale.

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La sinergia che aiuta i senzatetto

Ho pubblicato questo articolo sul numero 3 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – e ripaga gli sforzi di tutti noi.

J. è un uomo sui 40anni e vive in strada a Milano da tre. Un matrimonio finito nell’alcol, la causa. Con accento sudamericano chiede l’anonimato. Disegna a mani nude, sfumando i pastelli con le dita. «Se ti piacciono i miei soggetti puoi scrivere che sono ben fatti?». Tra le tavole realizzate, un ritratto dell’ex centravanti nerazzurro Ivan Zamorano. «È stato il mio giocatore preferito», svela.

J. è uno dei 2.608 senzatetto milanesi rilevati in RacContami, il censimento realizzato dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti in collaborazione con l’Università Bocconi, il Comune di Milano e 700 volontari. Stando al rapporto, le persone senza fissa dimora sono lo 0,19 per cento della popolazione totale. Un dato nella media delle grandi città europee, ma che rimane il più alto su scala nazionale. Dopo la morte di un clochard a Porta Genova, risale allo scorso dicembre l’appello del sindaco Giuseppe Sala per persuadere chi vive in strada a proteggersi dal freddo servendosi dei dormitori.

La tragedia è dovuta al fatto che il 71 per cento del campione di senzatetto coinvolto dorme in strada, correndo gravi rischi in inverno. Dal 2013, inoltre, il rapporto evidenzia un aumento del 4 per cento tra le persone che passano la notte all’aperto.

«Spesso è una scelta di vita», racconta Giovanni Masini, volontario che da cinque anni prepara pasti e assiste in strada con Misericordia Milano Sant’Ambrogio. «Queste persone hanno la loro libertà, mentre nel dormitorio ci sono delle regole come l’orario di rientro o il divieto di alcol e droghe. Dopo molti anni in strada, è difficile avvicinarsi anche solo alla mensa». Nonostante le difficoltà, a Milano c’è sinergia tra istituzioni e associazioni. Lo stesso Piano Freddo è realizzato dal Comune insieme a loro. Alla fine di ogni turno, i volontari compilano una relazione sulle condizioni dei senzatetto incontrati. Le varie squadre che escono di notte sanno quali percorsi fare sulla base della rete sviluppata insieme a palazzo Marino. Gli spazi e la condivisione di dati sono frutto di questo coordinamento che permette al sistema di funzionare, rappresentando un modello per tutto il Paese con quasi 2.400 posti letto.

«Milano è una città dove aiutare fa parte di un processo strutturato», conferma il vicepresidente dell’associazione aconfessionale City Angels, Sergio Castelli. L’Oasi dei Clochard è l’ultimo progetto dell’organizzazione fondata nel 1994 da Mario Furlan: un centro in via Lombroso sottratto al degrado, con funzione di prima accoglienza e integrazione sociale. «Ci sono container con tutte le comodità dove vengono serviti pasti a 175 persone», spiega Castelli. «Sta per nascere un orto curato dagli stessi ospiti e una colonia felina, prima spontanea e ora in via di verifica da parte dell’Asl». Gli stabili in cui operano le organizzazioni sono dati in concessione tramite bando pubblico e, una volta riorganizzati, rappresentano spazi utili per l’intera collettività. «Tutti gli anni riceviamo un dormitorio dal Comune, spesso una struttura dismessa», spiega Masini. «L’anno scorso si trattava di un ex ambulatorio dell’ospedale di Niguarda. Lo abbiamo allestito, pulito e mantenuto: un servizio sul piano economico, perché il Comune non ce la farebbe a coprire i costi».

Secondo RacContami, l’intera rete di organizzazioni no profit alleggerisce le spese dei comuni italiani. Supponendo una paga ai volontari di 10 euro all’ora per una media di 3 ore a settimana, lo studio ha stabilito che l’intero terzo settore italiano muoverebbe 8 miliardi di euro all’anno. Le organizzazioni però incontrano difficoltà economiche. La loro natura no profit esclude ogni guadagno. «La gestione dei vari pagamenti rappresenta il problema principale», spiega Castelli. «Ospitare un senzatetto dandogli vitto, alloggio e assistenza sanitaria ha un costo che l’importo della retta non copre». La retta elargita dal Comune di Milano, anch’essa assegnata via bando, equivale a 11 euro al giorno. In quella cifra deve rientrare tutto. «Il Comune cerca di aiutarci, ma è dura perché nel terzo settore le rette sono tutte simili».