Categorie
Attualità Praticantato

Le vie della droga portano in Duomo

Ho pubblicato questo articolo sul numero 7 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – ma ripaga gli sforzi di tutti noi

Colonne di San Lorenzo, giovedì universitario. In un chiosco, musica ad alto volume e alcol a pochi euro. Incorniciato in una santella, le luci riflettono il dipinto di un Cristo con lo sguardo rivolto ai passanti.

Sotto i porticati, l’indice e il medio della mano destra di un ragazzo di origine maghrebina sfiorano il dorso dell’altra mano, come a spalmare una crema invisibile. È un segnale per chi è dall’altra parte del marciapiede. Significa che gli servono 20 euro di erba da piazzare. Dopo qualche indicazione in arabo, un secondo ragazzo mette mano in un vaso sul ciglio della strada, nascondiglio di fortuna per piccole quantità di droga. Dallo sguardo sacro del dipinto a quello di una telecamera a circuito chiuso, passano di mano i soldi, quindi la dose. La contrattazione è finita, tra lo scampanellio del tram numero 3 e un nuovo cliente da accontentare.

Il giovane fa parte di un gruppo onnipresente in piazza, una decina di nordafricani per i quali non conta che giorno sia. Ci saranno nel weekend come nei feriali, a occupare il gradino più basso della filiera dello spaccio di droga a Milano. Come loro, in migliaia fanno parte di una rete sviluppata dalle organizzazioni criminali in modo capillare. Una mappa di vizio e affare che frutta alle mafie profitti enormi grazie al traffico di stupefacenti tra cui marijuana e hashish, sostanze tra le più consumate e “accettate”.

IMG_7846 2
Le colonne di San Lorenzo, una delle piazza di spaccio milanesi che non chiude mai

Milano è al centro del narcotraffico europeo e lo spaccio delle due sostanze rappresenta una fetta consistente degli affari, secondo solo a cocaina ed eroina. I fatti di cronaca confermano la centralità della marijuana nel consumo e nel contrasto al narcotraffico; dall’arresto di una donna gambese, considerata a capo di un gruppo di connazionali che controllavano lo spaccio nella stazione Centrale, fino ai sequestri nelle scuole lombarde. Secondo la relazione del 2017 pubblicata dalla direzione centrale antidroga, la marijuana e l’hashish sequestrati in Lombardia compongono insieme il 17,4 per cento del livello nazionale. Dal Viminale, in particolare, emerge un dato significativo: l’aumento della quantità sequestrata. Nel 2017 c’è stato un incremento del 330 per cento rispetto all’anno precedente. L’andamento su base decennale, inoltre, evidenzia i grossi quantitativi che circolano nelle strade milanesi: 4,5 tonnellate sequestrate, 16 volte la cifra del 2008 (278 chilogrammi).

Dietro ai numeri c’è un sistema che nutre uno Stato parallelo i cui profitti sono difficili da quantificare. Stando allo studio dell’organizzazione israeliana Seed, che monitora il prezzo della marijuana nel mondo, a Milano un grammo costa 8,85 euro. Tuttavia, la sostanza in strada viene più del doppio. Da Porta Ticinese a piazza Leonardo, dove ha sede il Politecnico di Milano, la media per grammo è 20 euro, con picchi di 25-30 se si tra ta di qualità con concentrazione più alte di Thc. Perché? Secondo fonti investigative i prezzi «li fa la piazza e soprattutto quanti soldi ci sono nelle tasche di chi compra». Le dinamiche che gonfiano i costi, in un sistema dove è l’accordo criminale a suggellare gli affari, «sono legate alla logistica delle rotte internazionali dove tutto ha un prezzo. La gestione del traffico di marijuana è complicata da fattori logistici: per l’erba serve spazio, è voluminosa e i grossi magazzini fuori dalle aree industriali, da Bruzzano a Quarto Oggiaro fino a Baggio e la Barona, sono cruciali. L’odore è un altro problema per cui molta marijuana viene trattata con sostanze chimiche. Gli albanesi coprono l’odore dell’erba con lacche spruzzate allo scopo di migliorarne anche l’aspetto e il colore. In molti casi le sostanze rintracciate sui campioni di erba analizzati non sono riconosciute nelle liste di laboratorio».

Secondo le ricostruzioni dei flussi calcati dagli investigatori, il trattamento della marijuana ha aumentato il giro d’affari del fai-da-te perché «basato su un rapporto fiduciario con chi produce, di solito in piccole quantità e senza bagnare lo stupefacente». La variazione dei prezzi risiede anche nel trasporto della sostanza dalle aree di coltivazione a quelle di vendita. Le rotte principali verso Milano sono l’Albania per la marijuana e il Marocco per l’hashish. La rotta maghrebina fa arrivare via Gibilterra e Spagna hashish e oppiacei in Europa. I corrieri utilizzano sia piccole imbarcazioni che navi commerciali, i cui container arrivano ogni giorno nei porti di Genova, Gioia Tauro e Trieste.

klement-balili-22
Klement Balili, il “Pablo Escobar” albanese

Coltivare in Albania costa meno: la tratta Tirana-Milano vale milioni di euro per cosche calabresi e cupole albanesi. Non è un caso che il “Pablo Escobar dei Balcani”, Klement Balili, consegnatosi lo scorso gennaio alle autorità balcaniche in quanto presunto reggente di uno dei gruppi shqiptar al centro del narcotraffico, sia stato avvistato più volte a Milano per puntate di shopping in Galleria tra un affare e l’altro. «Le organizzazioni albanesi utilizzano il canale di Otranto per far arrivare pacchi impermeabili sulle coste pugliesi. Una volta scaricate, le partite vengono poste nei furgoni e traspor- tate verso Milano. In passato, con il traffico di sigarette, lo scambio dei pacchi dai furgoni alle “veloci” (automobili più rapide negli spostamenti, ndr) permetteva di individuare e sequestrare i carichi. Oggi, invece, i furgoni non si fermano, arrivano a destinazione rendendo complesso intercettarli».

L’aumento finale dei prezzi va calco- lato contando le fasi successive. «Pagato chi ha organizzato il viaggio e scaricato dall’Albania, va saldato chi trasporta, il grossista e quindi lo spacciatore». Secondo gli investigatori, questo sistema rende la piazza “aperta” e in un certo senso «tutti mangiano, specie sullo spaccio di cocaina. In ogni caso il sistema è gestito dalla ‘ndrangheta, che negli anni si è consolidata a Milano, controllando l’intera rete di traffico». Così nella filiera della marijuana milanese si incrociano sfruttatori e sfruttati. Due categorie distanti che non si conoscono, ma che sono legate da un rapporto criminale. Dove ci sono persone come A., 21 anni, muscoloso con sguardo incosciente. In Italia da un anno, vende cianfrusaglie in zona Città Studi dopo l’arrivo dal Senegal e il passaggio dalla Francia. «Sono venuto con l’aereo», tiene a sottolineare. In attesa dei documenti, su richiesta, rimedia qualche extra con lo spaccio di hashish. «Me lo porta un africano, la prende da un italiano che gestisce tutto e d’estate ci fa andare a lavorare sulle spiagge adriatiche. Così mi assicuro l’affitto durante i mesi estivi, quando Milano è vuota». A. prende la metà da ogni dose di hashish venduta, rimanendo in un gruppo di cavallini ai comandi del capopiazza. «Ho provato a fare il lottatore di laamb (la lotta tradi- zionale senegalese, ndr) ma i miei genitori me l’hanno vietato per- ché pericoloso». Spacciare sarebbe da meno? «Vorrei andare a lavorare. Ce la farò».

 

Categorie
Attualità Praticantato

Arresti e omicidi nella Napoli delle nuove faide

Articolo pubblicato su “La Sestina”, la testata online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”

Un arsenale, chili di stupefacenti e un distintivo falso della Guardia di Finanza. È quanto ritrovato dai Carabinieri di Napoli nella roccaforte del clan Sequino nel Rione Sanità, dove all’alba i militari hanno eseguito un blitz arrestando 30 persone ritenute affiliate alla famiglia. Durante le indagini, i militari hanno colto in flagranza di reato quattro persone, a cui sono stati sequestrati 1,3 chilogrammi di cocaina proveniente dal comune calabrese di San Luca. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione di stampo mafioso, estorsione, porto abusivo di armi e spaccio di stupefacenti. I reati sono aggravati da finalità e metodo mafiosi.

“Mesate” e scommesse a debito –  Gli investigatori hanno ricostruito l’attività criminale del clan nel centro storico della città. E’ stato portato alla luce il meccanismo d’uso della “cassa comune”, che serviva a pagare le cosiddette “mesate”,  i soldi che i boss corrispondevano alle famiglie degli affiliati detenuti. Scoperto anche il sistema del pizzo ai centri scommesse. I membri dei Sequino piazzavano giocate su eventi sportivi senza pagare le quote, salvo poi incassare le eventuali vincite. Nel fortino sono stati trovati anche un kalashnikov, cinque pistole, una mitragliatrice e tre fucili, oltre a 630 grammi di marijuana.

Colpiti anche i Vastarella – Nelle stesse ore, la Squadra Mobile della Polizia di Napoli ha colpito duramente anche la famiglia rivale dei Vastarella. A Guidonia, a sud est di Roma, è stato arrestato un membro di spicco del clan, già latitante, dopo una fuga rocambolesca. Inoltre sono state notificate due misure cautelari ad Antonio e Patrizio Vastarella, già agli arresti in carcere per il tentato omicidio ai danni di Giovanni Sequino.

 

La scia di sangue – L’operazione arriva in un momento di forte tensione tra i clan.  Solo nell’ultimo fine settimana nell’hinterland napoletano è stato insanguinato da due omicidi. Il primo sabato sera, a Mugnano, quando tra la folla è stato assassinato con un colpo di arma di fuoco alla nuca Giovanni Pianese, 63 anni, venditore ambulante occasionale nel mercato del pesce locale. Secondo gli inquirenti, l’uomo sarebbe stato ucciso per una vendetta trasversale nei confronti di suo figlio Saverio, vicino ai clan di Secondigliano e Scampia. La matrice della vendetta sembra essere anche al centro del secondo omicidio, avvenuto ad Acerra domenica 17 febbraio. Attorno alle 10, due uomini a bordo di uno scooter di grossa cilindrata hanno teso un agguato a Vincenzo Mariniello, 46 anni, capo clan dell’omonimo gruppo criminale. Dietro l’agguato ci sarebbe un regolamento di conti dovuto ai debiti contratti dal boss con alcuni clan locali. L’uomo è stato crivellato a colpi di arma da fuoco nel cortile della sua abitazione mentre cercava rifugio. Aveva ereditato la posizione nella cosca dal padre Gennaro, anche lui assassinato il 23 marzo del 2000 dai rivali De Sena-Di Fiore.

Faide e tradimenti –  All’epoca le due famiglie assoldarono un cecchino per poter uccidere Gennaro. Fu colpito a distanza, mentre era sul balcone di casa. La vendetta arrivò 6 anni dopo, quando suo fratello Antonio assassinò l’esponente del clan De Falco, Ciro. «Gesù ti consegna l’assassino di tuo fratello e tu che fai, non gli spari?», disse in un’intercettazione telefonica. Gli arresti di questa mattina non sono circoscritti al solo Rione Sanità, ma investono tutto il territorio napoletano.

Sempre sabato, infatti, è stato arrestato alle porte di Capodichino Ciro Rinaldi, 55 anni, detto «o’ Maùè», accusato di essere il mandante del raid avvenuto nel 2016 a Ponticelli che costò la vita al boss 24enne dei “barbudos”, Raffaele Cepparulo, e al 19enne Ciro Colonna, vittima bianca di camorra rimasto ucciso nell’agguato. La soffiata sulle informazioni utili alla posizione di Rinaldi sono arrivate da Anna De Luca Bossa, considerata fondatrice del primo clan gestito da sole donne, le “Pazzignane”, nome derivato dal rione Pazzigno dal quale provengono le affiliate.

La risposta del Sindaco – «Voglio congratularmi con i Carabinieri del Comando Provinciale di Napoli e con la magistratura napoletana per l’esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare per fatti gravi di camorra eseguite questa mattina nel quartiere Sanità – ha affermato il sindaco di Napoli Luigi de Magistris – .Grazie a queste attività la Sanità sarà progressivamente liberata dai tentativi del crimine di rallentare la rinascita di un quartiere dove la sua gente ha già scelto per la bellezza, lo sviluppo, la cultura e l’umanità».

Categorie
Praticantato

Il rugby non fa meta in città

Ho pubblicato questo articolo sul numero 4 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – e ripaga gli sforzi di tutti noi.

Il rugby in Italia soffre una crisi economica e federale che complica lo sviluppo della disciplina. Il panorama ovale di Milano non fa eccezione e rappresenta un paradosso. Stando ai dati del Comitato Fir Lombardia, Milano è sottorappresentata rispetto al numero di praticanti. Pur appartenendo alla regione col più alto numero di tesserati in Italia – 13.618 praticanti su 17.173 iscritti – e nonostante 36 club e 4.825 rugbisti, l’intera area metropolitana non ha un movimento competitivo. I professionisti che parlano meneghino sono sempre meno.

800px-ST_vs_Benetton_Rugby_-_2013-01-13_-_02
Luca Morisi in azione con la maglia della Benetton Treviso nel 2013

Dei 31 azzurri selezionati per il Sei Nazioni 2019, appena 5 sono lombardi, con i soli Luca Morisi e Simone Ferrari cresciuti nel milanese ed emigrati alla Benetton Treviso. «I club migliori della Lombardia sono concentrati nel bresciano, dove il tessuto industriale fornisce investimenti», dicono dal Comitato. Milano è esclusa da quest’ottica. «Il Veneto esprime squadre ad alto livello perché ha una tradizione e una gestione tecnica migliore», aggiunge il presidente del Comitato lombardo Angelo Bresciani. Eppure il rugby milanese ha radici gloriose. Agli inizi del Novecento, quando lo sport si affermava come fenomeno di massa nelle città industriali, discipline come il rugby trovarono seguito col fiorire delle polisportive, tra cui l’Unione sportiva Milano. Stefano Bellandi si fece promotore della Fir e diffuse il gioco fondando, dopo la scissione dall’Ambrosiana, l’Amatori, società tuttora detentrice del record di scudetti vinti in Italia. Entrambi i club sono falliti e del passato rimane poco.

C’è il presente, però, come in via Padova, dove tra le insegne dei negozi etnici sbucano i pali del campo della Cus Milano rugby. La società ha inaugurato a dicembre lo spazio di via Cambini grazie a Insieme, progetto che ha aperto centri polifunzionali a Quarto Oggiaro, Segrate, Giuriati e Baggio. «Un piano realizzato con il Comune e l’impegno dell’ex nazionale Diego Dominguez», spiega Mario Smedile, responsabile delle relazioni pubbliche del Cus. L’impianto è parte della periferia, tra le più alte per numero di residenti stranieri.

Rugby_US_Milanese_1911
Una formazione della Unione Sportiva Milanese nel 1911. In piedi a sinistra Stefano Bellandi

«I ragazzi sono stati tolti dalla strada e dalle brutte compagnie. Provengono da famiglie che non si possono permettere una retta», dice Giuseppe Fulgoni, responsabile tecnico del Cus. Il carattere educativo del progetto non esclude la qualità tecnica. «Il rugby non è la prima scelta e c’è una capacità motoria limitata. La scuola in questo senso dà zero, non c’è progettualità».

 

Fulgoni affronta il nodo della mancata affermazione dei talenti: la gestione del deficit tecnico, lacuna che arriva fino in nazionale. «La specializzazione precoce è un problema», spiega Fulgoni. «Gioca solo chi è forte e ci si scorda degli altri, creando squilibri. Arrivano infortuni o percorsi diversi dal rugby e si rimane con i giocatori su cui si è puntato meno. Bisogna puntare sulla tecnica collettiva e smetterla di vincere a tutti i costi».

Categorie
Attualità

La citazione più condivisa nel Darwin Day non è di Darwin

Oggi è il Darwin Day,  la giornata che celebra la nascita del naturalista britannico Charles Darwin. Come accade sempre in occasioni simili, le celebrazioni su internet impazzano prendendo il sopravvento su alcune cose importanti come, per esempio: controllare ciò che si pubblica.

Che sia per mancanza di zelo o per eccesso di entusiasmo, una delle citazioni più condivise sui social network per il Darwin Day non è stata mai profilata né scritta dal padre dell’evoluzionismo. Parlo di questa citazione qui, ripresa su Twitter da molti account. In questo caso – niente di personale – da Radio2:

Stando allo storico della scienza dell’Università di Cambridge John van Wyhe, però, la frase in questione è contenuta in un libro di formazione manageriale e non nell’Origine della specie, il libro che Darwin pubblicò dopo oltre venti anni di studio nel 1859. Certo, la frase racchiude superficialmente il senso del concetto darwiniano sull’adattamento delle specie, ma il padre dell’evoluzionismo non l’ha mai scritta.

Ora, non è finito il mondo né l’evoluzionismo è crollato come in molti desiderano. Questo post è un atto di amore verso un personaggio che ha aperto le menti con la sua intelligenza. Non si tratta neppure di una puntigliosa precisazione, ma solo di un’osservazione che offre un assaggio rispetto ai tempi che viviamo e al modo di diffondere informazioni.

Questo post, inoltre, è privo di qualsiasi superiorità: non sono uno scienziato né uno storico della scienza. Ma avendo studiato Darwin all’università in un corso di Storia del pensiero scientifico – con un enorme ritorno formativo e personale – una delle lezioni più belle è stata quella di capire l’importanza di condividere con curiosità ciò che si nota. Era un approccio valido nelle difficili e creazioniste stanze del sapere vittoriano in cui Darwin muoveva le sue teorie e lo è oggi in una realtà ricca di potenzialità ma che non ha meno bisogno di precisione e curiosità.

Come lo stesso Darwin ha insegnato a fare, dopotutto, condividendo i suoi scritti con colleghi, forse un post simile  è un buon modo per rendere giustizia a una delle menti più grandi che l’umanità abbia mai avuto. Perciò, una verifica prima di condividere non fa mai male, anche in virtù del metodo scientifico che fa della verificabilità uno dei suoi principi. Perché altrimenti postare cose contro i ciarlatani e l’anti-scienza imperante non ha senso. Facciamo così e pure l’anima del povero Charles sarà contenta.

Categorie
Biscotti

«È la mitomania, bellezza»

Il video del Washington Post trasmesso negli spazi pubblicitari dell’ultimo Super Bowl è un’americanata. D’accordo, andavano incollati gli occhi di una platea ampia di telespettatori e per riuscirci bisognava puntare su un contenuto ben confezionato. È comprensibile. In questo senso la parola “nazione” contenuta nella pubblicità o la bandiera svolgono già di per sé questa funzione, specie in un evento sportivo con il seguito che solo il Bowl riesce a raccogliere in termini di pubblico.

Per completezza va detto che nel video c’è anche una componente di forte discussione nel contesto della dipartita politica tra Bezos e Trump. Quel “Democracy Dies in Darkness” è la summa dello scontro tra i due. Tuttavia l’argomento è un altro: il contenuto del video alias il giornalismo. Da aspirante addetto ai lavori, come per qualsiasi persona «resa libera dalla conoscenza», come recita lo spot, si tratta di un contenuto ubriacato di luoghi comuni a stelle e strisce su cosa (non è) questa professione.

Non sto mettendo in discussione il ruolo degli operatori dell’informazione nel mondo, la loro presenza nella copertura dei fatti, né gli sforzi umani ed economici che compiono ogni giorno. Non polemizzo moralisticamente su quei 5,5 milioni di dollari sborsati dal quotidiano di Jeff Bezos per comparire in televisione perché se hai a disposizione certe cifre è perché ci sai anche fare. Dopo essere passato nelle mani di Bezos, infatti, il Washington Post è diventato un esempio virtuoso di rinnovamento del settore editoriale sia rispetto ai tempi che all’universo amazoniano – che sullo sfruttamento ci basa un impero. Perciò esistono certe cifre se si riescono a produrre certi numeri, anche al netto di risorse illimitate come budget di partenza. In generale, tutelare la professione giornalistica è un guadagnano per tutti.

Non sto parlando di certe dinamiche, dunque, ma di quel modo di interpretare la ricerca della verità nel giornalismo da parte di alcuni americani e del loro modo di parlare di “verità”, un concetto che non esiste come assoluto. Questo approccio edulcora ciò che muove la professione in mitomania assoluta. L’epica holliwoodiana, per esempio, è uno dei vettori principali di questo fenomeno. Non fraintendetemi, sono il primo a riconoscere l’efficacia di alcuni film che hanno permesso di far conoscere al grande pubblico diverse inchieste giornalistiche, da “Tutti gli uomini del presidente” con Redford e Hoffman fino al recente “Il caso Spotlight”. Come risultano altrettanto preziose tutte le raccolte e le antologia degli articoli più importanti pubblicati nell’ultimo secolo sulla stampa americana: lavori magistrali da studiare che sfiorano la letteratura.

Il punto è un altro: finché sei un* giovane con l’idealismo a scandire le tue giornate e le tue prospettive, video del genere fungono da carburante. Ma se non lo sei più ti viene da sorridere perché ti accorgi che, come succede spesso anche in Itali, anche tra gli stessi aspiranti, il passo dall’idealismo alla mitomania, dalla forma al contenuto, dalle buone intenzioni all’attivismo, è breve. E questo non è giornalismo, al massimo è mitomanismo.

Categorie
Attualità Praticantato

La mossa difficile di Milano per assicurare il reddito di cittadinanza ai senzatetto

Articolo pubblicato su “La Sestina”, la testata online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” 

La buona intenzione c’è, ma i problemi non mancano. L’iniziativa del Comune di Milano di utilizzare la residenza fittizia per garantire il reddito di cittadinanza ai senzatetto potrebbe andare incontro a una serie di criticità. Da Palazzo Marino riconoscono che la gestione delle richieste delle persone senza fissa dimora potrebbe appesantire il lavoro degli uffici comunali a causa delle criticità legate alla residenza dei richiedenti, al controllo fiscale e alle mancate direttive ricevute dal ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico riguardo gli impieghi collettivi previsti dalla norma.

La residenza fittizia – Per far fronte al problema, il Comune ha previsto l’utilizzo della residenza fittizia come strumento utile a garantire il reddito di cittadinanza anche ai senza dimora aventi diritto. La residenza fittizia è in vigore da anni ed è sfruttata dai comuni per garantire alle persone senza un luogo fisso di avere un indirizzo di residenza dove poter ricevere documenti, posta ed essere rintracciate. Tuttavia, soltanto 200 comuni italiani su 8mila sfruttano questo istituto. Per ampliare le possibilità degli aventi diritto a presentare la domanda, il Comune aprirà entro fine febbraio 4 nuovi centri dove i senzatetto richiedenti potranno dialogare con il municipio e gestire le carte.

Le criticità su Milano – In generale, il reddito di cittadinanza presenta le stesse criticità per tutti i richiedenti. I comuni sono coinvolti in una comunicazione assente da parte del ministero, che non ha ancora inviato linee guida su come organizzare gli apparati interni. «Nonostante l’interesse e le domande pervenute, dagli uffici ci hanno fatto sapere che la macchina non è ancora avviata – spiega Martina Carnovale, portavoce dell’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino – Uno dei dubbi riguarda i progetti utili alla collettività previsti dal decreto, quelli che Di Maio ha chiamato volgarmente “lavori socialmente utili”». Tra le misure della legge, infatti, è previsto che i beneficiari del reddito prendano parte a lavori collettivi di diversa natura all’intero di strutture comunali per un totale di 8 ore settimanali. «Chi pagherà l’assicurazione a queste persone che presteranno servizi alla collettività? – si chiede Carnovale – Chi si occuperà dei corsi di formazione utili al loro svolgimento? Nessuno ce lo ha ancora detto». L’altro punto riguarda i controlli per scovare chi godrà in maniera illecita del reddito di cittadinanza. Per risolvere il problema, la legge ha previsto controlli fiscali incrociati svolti dai comuni, che potranno visionare le dichiarazioni Isee dei richiedenti. «Un lavoro enorme per un comune vasto come Milano – continua Carnovale – Oltre alle domande di assegnazione andranno gestiti anche questo tipo di controlli sul territorio. Un lavoro che rischia di appesantire la burocrazia comunale».

Conflitto – Così come tra cittadini italiani e stranieri con residenza stabile, l’assegnazione del sussidio potrebbe aprire una spaccatura anche all’interno della comunità di senzatetto. La legge che ha approvato il reddito di cittadinanza prevede l’assegnazione del sussidio agli stranieri residenti purché in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due continuativi. Per chi non ha una residenza, però, il problema resta dimostrare che il proprio soggiorno rientri nelle richieste avanzate. «Un conflitto creato dalla legge stessa», conclude Carnovale.

Categorie
Attualità

Viktor Orbán, un populista

Budapest, giugno 1989. I gruppi di opposizione all’occupazione sovietica, in accordo con l’ala riformista comunista ungherese, decidono di disseppellire la bara di Imre Nagy, il politico magiaro a capo della fallita rivoluzione del 1956 poi ucciso dai servizi segreti di Mosca. 

C’è un’atmosfera di omaggio a 31 anni da quell’assassinio e un giovane laureato in legge con un passato da calciatore professionista di nome Viktor Orbán supera la folla con i suoi compagni tenendo un discorso contro l’invasione russa in Ungheria. Cinque mesi più tardi il muro di Berlino cadrà e con esso anche l’Unione Sovietica, che inizierà la smobilitizzazione delle truppe dai paesi sotto l’influenza della cortina di ferro. 

Ascesa al potere
Un anno più tardi, nel 1990, quello stesso ragazzo conquisterà il suo primo posto nel parlamento di Budapest, iniziando la sua corsa al potere con un partito populista e conservatore creato a sua immagine e somiglianza, Fidesz.

La sua ascesa è rapida e nel 1998 conquisterà la presidenza ungherese a soli 35 anni diventando il più giovane capo di stato nella storia del paese. Da allora la politica dell’Ungheria è direttamente connessa alla figura di questo avvocato proveniente da Székesfehérvár, città nel cuore dell’Ungheria, nonché capitale del paese epoca medievale, dove ha vissuto con la famiglia sostenuta dal padre controllore tecnico presso le miniere locali. Lo scorso 8 aprile Orbán ha ottenuto il suo quarto mandato, il terzo consecutivo, conquistando il 98 percento dei voti. «Un voto espressione del popolo» chioserà il premier slovacco Peter Pellegrini quando l’Unione Europea denuncia le forti influenze governative sulla campagna elettorale in Ungheria.

Il dato non ha sorpreso gli analisti politici perché in Ungheria, stando alle denunce delle associazioni, come alle manifestazioni auto-organizzate da milioni di cittadini ungheresi, la richiesta di un maggiore spazio al dibattito politico e alla pluralità dei mezzi di informazione creano domande lecite sull’effettiva qualità del consenso ottenuto da Orbán.

Lo scenario politico in Ungheria ha anticipato spesso le caratteristiche delle politiche populiste in Europa. Molti dei paesi centrali, come la Polonia e l’Austria, hanno guardato a Orbán come a un modello da seguire. Le sue politiche interne creano molto imbarazzo a Bruxelles, dove è osteggiato da gran parte dei rappresentanti politici del Vecchio Continente. Specie dopo il dibattito con Angela Merkel sulla costruzione di barriere al confine meridionale con la Croazia e la Serbia, volte a respingere il passaggio dei migranti dal Medio-Oriente, Orbán ha ottenuto da un lato una condanna generale ma dall’altro anche molti consensi tra i suoi estimatori, tra cui figurano Salvini, Le Pen e Trump, che lo ha definito «forte e coraggioso».

Zone d’ombra e repressione 
Il clima politico che si è creato in Ungheria è stato reso possibile attraverso il controllo totale dei mezzi di informazione da parte del governo centrale. Nel 2017 i 18 maggiori quotidiani regionali ungheresi sono stati acquisiti da oligarchi filo-governativi. Che è la stessa categoria imprenditoriale che Orbán aveva messo nel mirino durante gran parte degli anni Novanta, quando in Ungheria gli oligarchi col passato comunista spadroneggiavano nella speculazione legata alla privatizzazione delle aziende. La differenza è che gli attuali, di oligarchi, sono suoi alleati. Dalla caduta dell’Urss la classe dirigente è cambiata e l’attuale corpus industriale non ha pochi rapporti col passato sovietico del paese, così l’Ungheria del boom economico è anche il paese europeo con un tasso di corruzione tra i più alti in Europa.

Le stesse ricchezze della famiglia di Orbán sono al centro di diverse inchieste, come quella avviata nel marzo scorso dall’Ufficio Europeo Anti-Frode dell’Unione Europea. Secondo l’edizione ungherese di Forbes, inoltre, Orbán avrebbe ottenuti ricchezze per circa 750 milioni di dollari, divenendo il secondo uomo più ricco di Ungheria dopo il banchiere Sándor Csányi. Vaste zone d’ombra collegano lo stesso presidente ungherese in affari milionari nei settori strategici e di sviluppo, che sono curati da suoi parenti e amici imprenditori.

«Paradossalmente la libertà di espressione era maggiormente garantita durante il regime comunista»

Per mantenere la discrezione su scenari così torbidi, Orbán ha usato tutto il potere politico per soffocare l’informazione indipendente in Ungheria. E lo ha fatto al punto che la Commissione nazionale per la regolamentazione radiotelevisiva è divenuta anche nota come  “la commissione incompleta” che, grazie ad alcune modifiche alle leggi fatte da Orbán stesso, oggi è composta da soli esponenti di Fidesz. Il piano di controllo dei mezzi di informazione è, tuttavia, solo una parte dell’espressione del potere politico e dell’opulenza accumulata dal leader di Fedesz in dieci anni. In generale i meccanismi che hanno concesso tali libertà a Orbán funzionano perché è stato capace di annullare l’opposizione proprio attraverso l’isolamento mediatico. 

«Paradossalmente la libertà di espressione era maggiormente garantita durante il regime comunista», mi spiega Claudia Patricolo, una ex-compagna di corso ai tempi dell’università che ora lavora come Deputy Editor per Emerging Europe, un magazine britannico che si occupa esclusivamente di Centro ed Est Europa. «Dopo il 1989 sono nate decine di testate, canali televisivi e radio private ma si tratta di una pluralità solo apparente – continua – I primi ministri che si sono succeduti negli ultimi anni hanno cercato di mettere un freno all’informazione obiettiva, controllando i mass-media attraverso leggi ad hoc e nomine di redattori a loro favorevoli».

Svolgere un’attività giornalistica libera in questo paese è difficile. Alcuni attivisti, osservatori di ONG e cronisti rischiano il posto di lavoro ogni giorno nell’Ungheria di Orbán, che sta realizzando il suo piano di realizzazione di un «governo illiberale», come ha sottolineato lo scorso gennaio tra il plauso dei suoi alleati politici. «Alcuni giornalisti attivi negli anni ’70 – racconta Claudia – mi hanno spiegato la difficoltà nel pubblicare notizie non approvate dal governo. Era difficile, ma non impossibile. Quando ci fu il disastro nucleare a Chernobyl, per esempio, L’Urss vietò di parlarne per non minare l’immagine del regime. Tuttavia molti giornalisti usarono i comunicati stampa delle ambasciate straniere, considerate anche dall’Urss come istituzioni ufficiali, e riuscirono a pubblicare la notizia ugualmente. Un modo si trovava sempre, dopotutto. Oggi, invece, trovare quel modo puo’ farti perdere il posto».

Un poster elettorale di Viktor Orbán in una strada di Budapest, nell’aprile del 2018. Credit: Adam Berry/Getty

“Noi vs. Loro”, un classico moderno
Andare contro Orbán significa prima essere additati come “nemici del popolo” e poi come “amici del sistema”. Questo genere di illazioni, insieme a una efficace speculazione storica perpetrata abilmente da Orbàn, hanno permesso al presidente ungherese di costruire una vera e proprio post-ideologia che è difficile da scalfire attraverso un giornalismo osteggiato e represso: essere inserito nella lista nera degli oppositori significa crollare.

«I pochi canali indipendenti vivono di autocensura – mi spiega Claudia – e chi non lo fa rischia di chiudere. Nel 2016 qui tutti ricordano cosa è accaduto al giornale di sinistra Népszabadság: all’improvviso è stato chiuso e i suoi dipendenti mandati a casa. Per evitare lamentele i proprietari hanno “concesso” altri tre mesi di stipendio, facendo passare il gesto per una gentile concessione del governo centrale quando invece in Ungheria la legge prevede espressamente il pagamento di tre mensilità, equivalenti al nostro sussidio di disoccupazione. Nei casi in cui le proprietà non siano legate al governo – prosegue – il destino dei giornalisti, e di quello che diranno, è nelle mani dei capi redattori. Possono essere fortunati e trovare qualcuno che si batta per loro. Tre anni fa, avevo letto un report su un possibile giro di riciclaggio di denaro mascherato in alcuni conti correnti inesistenti a Malta e a Cipro. Volevo approfondire la questione: mi é stato sconsigliato».

Nonostante il pugno duro di Orbán, molte organizzazioni internazionali e ungheresi, l’altra grande categoria osteggiata dal leader di Fedesz, monitorano l’ambiente democratico del paese. Alla vigilia della tornata elettorale di aprile l’Osce ha espressopreoccupazione per la mancanza di pluralità nel dibattito pubblico ungherese e sull’influenza di questo aspetto sui risultati elettorali.

«Non sono state elezioni obiettive e Fidesz è stato quasi l’unico protagonista, ma non possiamo parlare di irregolarità dal momento che la legge ungherese non prevede dibattiti o spazi definiti per l’opposizione dopo le modificazioni create da Orbán. Se teniamo in conto gli avvenimenti degli ultimi giorni, l’Ungheria ha davanti a sé quattro lunghissimi anni. A meno di 48 ore dalle elezioni, il quotidiano conservatore a maggiore tiratura, Magyar Nemzet, ha chiuso per motivi economici. Guarda caso il proprietario, Lajos Simicska, ex-migliore amico di Orbán, aveva rivolto pesanti accuse al primo ministro. Il giorno dopo, anche il giornale online Budapest Beacon, una delle pochi fonti in lingua inglese, ha chiuso i battenti dichiarando “impossibile continuare a pubblicare oggettivamente in un Paese senza pluralità dei media”».

Il nazionalismo sembra essere uno degli aspetti più interessanti nella costruzione politica di Orbán, perché è riuscito a colmare l’aspettativa (post)ideologica di un territorio in cui, storicamente, ha sempre aleggiato l’invasione

La stessa campagna elettorale ungherese di Orbán è stata caratterizzata, come nelle precedenti, da tre pilastri tipici dello schema di una forza populista di destra: la xenofobia, l’euroscetticismo e il nazionalismo. Tutti i punti sono stati abilmente promossi attraverso i canali di informazioni controllati in modo capillare. Sul primo punto Orbán ha più volte ribadito nel corso dell’ultima campagna elettorale la propria linea intransigente sull’immigrazione. Sull’Unione Europea si è più volte espresso con espressioni molto forti: «L’Ue è come l’Unione Sovietica», per esempio. Il nazionalismo, però, sembra essere uno degli aspetti più interessanti nella costruzione politica di Orbán, perché è riuscito, ricorrendo anche a suggestive immagini storiche, a colmare l’aspettativa (post)ideologica di un territorio in cui, storicamente, ha sempre aleggiato l’invasione dapprima mongola, poi ottomana e recentemente sovietica. 

Una folla radunata a Budapest attende l’intervento di Viktor Orbán in occasione delle celebrazioni per i moti del 1848, marzo 2012. Akos Stiller/Bloomberg/Getty

Un esempio del nuovo nazionalismo magiaro costruito da Orbán è il racconto di Geza Gardonyi “L’Eclisse della Luna Crescente”. Questa novella è conosciuta da ogni ungherese alfabetizzato, poiché letta nelle scuole da generazioni, ed è basata su fatti realmente avvenuti nel 1552, quando il capitano Istvan Dopo, insieme al suo reggimento, dovette resistere all’assedio turco al castello di Eger, nel nord del paese, durante la campagna militare degli Ottomani per entrare in Europa. L’eroe principale del racconto è l’esperto di polveri esplosive Gergely Bornemissza che impedisce la conquista di Eger, di fatto l’unico castello ungherese a resistere al dominio ottomano.

Nel settembre del 2015 durante una visita al monastero di Banz, in Bavaria, Orbán ha citato il racconto dichiarandosi «pronto a proteggere l’Ungheria dall’invasione musulmana in Europa». «La campagna mediatica di Orbán è stata basata sull’odio e la paura – dichiara Claudia – Non a caso Fidesz ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle campagne e tra gli elettori di età superiore ai 60 anni. Considerata la scarsa voce in capitolo dell’opposizione, questi risultati erano prevedibili. Immaginiamo una coppia anziana di provincia bombardata dalle uniche notizie a cui ha accesso: tutto il giorno si sentono dire che George Soros è in combutta per fare arrivare in Europa oltre un milione di persone  di religione musulmani con cattive intenzioni. Non dobbiamo stupirci se oltre 2 milioni di ungheresi hanno scelto Orbán e il clima di sicurezza e pace che Fidesz promuove». Proprio il miliardario di origine ungherese George Soros è l’altro grande nemico di Viktor Orbán, quasi un’ossessione. L’ottobre seguente a quel famoso discorso anti-Cremlino tenuto a pochi metri dalla tomba di Nagy, Orbán studiò al Pembroke College dell’Università di Oxford proprio grazie a una borsa di studio pagata dalla Open Society Foundation di Soros. Ora lo speculatore di borsa naturalizzato americano è diventato il nemico numero uno di Orbán, che viene criticato per i rapporti stilati dalle stesse  Ong  che gestisce. A distanza di anni il rapporto di Orbán con il magnate magiaro è quindi radicalmente cambiato al punto che lo stesso Soros ha lamentato di essere stato messo al centro della campagna elettorale di Orbán «perché ebreo».

In molti temono che Orbán possa modificare la costituzione ulteriormente, togliendo questo diritto al popolo per darlo direttamente al parlamento.

In questa situazione il futuro politico dell’Ungheria è destinato a peggiorare rispetto alle funzione democratiche applicabili nel paese e tra poco meno di tre anni il prossimo appuntamento elettorale potrebbe presentare scenari invariati sia sul piano politico che mediatico.

«Nel 2019 si terranno le elezioni municipali – dichiara Claudia – Oggi sono i cittadini che eleggono i sindaci dei vari distretti di Budapest e, se i dati dovessero rimanere invariati, la sinistra avrebbe la maggioranza. In molti temono che Orbán possa modificare la costituzione ulteriormente, togliendo questo diritto al popolo per darlo direttamente al parlamento. E potrebbe farlo, dal momento che può contare su una maggioranza composta dai due terzi del parlamento. Anche la libertà di stampa – continua – non sembra avere un futuro roseo. L’Unione Europea ha accusato molte volte l’Ungheria di non essere un Paese democratico e di voler imbavagliare la stampa, ma ciò non si tradurrà in nessuna azione concreta visto che servirebbe il voto unanime di tutti i Paesi membri e alcuni Stati, come la Polonia, stanno intraprendendo lo stesso cammino di Orbán e giurano di proteggerlo da eventuali decisioni di Bruxelles. Come durante il comunismo, le uniche voci che sopravvivono sono quelle estere i cui spazi dedicati all’Ungheria, però, sono ristretti».

Categorie
Praticantato

La sinergia che aiuta i senzatetto

Ho pubblicato questo articolo sul numero 3 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – e ripaga gli sforzi di tutti noi.

J. è un uomo sui 40anni e vive in strada a Milano da tre. Un matrimonio finito nell’alcol, la causa. Con accento sudamericano chiede l’anonimato. Disegna a mani nude, sfumando i pastelli con le dita. «Se ti piacciono i miei soggetti puoi scrivere che sono ben fatti?». Tra le tavole realizzate, un ritratto dell’ex centravanti nerazzurro Ivan Zamorano. «È stato il mio giocatore preferito», svela.

J. è uno dei 2.608 senzatetto milanesi rilevati in RacContami, il censimento realizzato dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti in collaborazione con l’Università Bocconi, il Comune di Milano e 700 volontari. Stando al rapporto, le persone senza fissa dimora sono lo 0,19 per cento della popolazione totale. Un dato nella media delle grandi città europee, ma che rimane il più alto su scala nazionale. Dopo la morte di un clochard a Porta Genova, risale allo scorso dicembre l’appello del sindaco Giuseppe Sala per persuadere chi vive in strada a proteggersi dal freddo servendosi dei dormitori.

La tragedia è dovuta al fatto che il 71 per cento del campione di senzatetto coinvolto dorme in strada, correndo gravi rischi in inverno. Dal 2013, inoltre, il rapporto evidenzia un aumento del 4 per cento tra le persone che passano la notte all’aperto.

«Spesso è una scelta di vita», racconta Giovanni Masini, volontario che da cinque anni prepara pasti e assiste in strada con Misericordia Milano Sant’Ambrogio. «Queste persone hanno la loro libertà, mentre nel dormitorio ci sono delle regole come l’orario di rientro o il divieto di alcol e droghe. Dopo molti anni in strada, è difficile avvicinarsi anche solo alla mensa». Nonostante le difficoltà, a Milano c’è sinergia tra istituzioni e associazioni. Lo stesso Piano Freddo è realizzato dal Comune insieme a loro. Alla fine di ogni turno, i volontari compilano una relazione sulle condizioni dei senzatetto incontrati. Le varie squadre che escono di notte sanno quali percorsi fare sulla base della rete sviluppata insieme a palazzo Marino. Gli spazi e la condivisione di dati sono frutto di questo coordinamento che permette al sistema di funzionare, rappresentando un modello per tutto il Paese con quasi 2.400 posti letto.

«Milano è una città dove aiutare fa parte di un processo strutturato», conferma il vicepresidente dell’associazione aconfessionale City Angels, Sergio Castelli. L’Oasi dei Clochard è l’ultimo progetto dell’organizzazione fondata nel 1994 da Mario Furlan: un centro in via Lombroso sottratto al degrado, con funzione di prima accoglienza e integrazione sociale. «Ci sono container con tutte le comodità dove vengono serviti pasti a 175 persone», spiega Castelli. «Sta per nascere un orto curato dagli stessi ospiti e una colonia felina, prima spontanea e ora in via di verifica da parte dell’Asl». Gli stabili in cui operano le organizzazioni sono dati in concessione tramite bando pubblico e, una volta riorganizzati, rappresentano spazi utili per l’intera collettività. «Tutti gli anni riceviamo un dormitorio dal Comune, spesso una struttura dismessa», spiega Masini. «L’anno scorso si trattava di un ex ambulatorio dell’ospedale di Niguarda. Lo abbiamo allestito, pulito e mantenuto: un servizio sul piano economico, perché il Comune non ce la farebbe a coprire i costi».

Secondo RacContami, l’intera rete di organizzazioni no profit alleggerisce le spese dei comuni italiani. Supponendo una paga ai volontari di 10 euro all’ora per una media di 3 ore a settimana, lo studio ha stabilito che l’intero terzo settore italiano muoverebbe 8 miliardi di euro all’anno. Le organizzazioni però incontrano difficoltà economiche. La loro natura no profit esclude ogni guadagno. «La gestione dei vari pagamenti rappresenta il problema principale», spiega Castelli. «Ospitare un senzatetto dandogli vitto, alloggio e assistenza sanitaria ha un costo che l’importo della retta non copre». La retta elargita dal Comune di Milano, anch’essa assegnata via bando, equivale a 11 euro al giorno. In quella cifra deve rientrare tutto. «Il Comune cerca di aiutarci, ma è dura perché nel terzo settore le rette sono tutte simili».

Categorie
Biscotti

L’insostenibile leggerezza di essere Guerrino

Dai ragazzi, seriamente: se non avete mai visto questo uomo ai fornelli mentre aspettavate i cartoni animati delle reti provinciali potete tranquillamente affermare di aver avuto un’infanzia un pò così.

D’accordo, la ricetta non è il massimo e forse quel giorno al buon Guerrino Maculan non andava di cucinare. Posso rassicurare, tuttavia, sul fatto che Guerrino è uno chef provetto considerato un grande interprete delle ricette tradizionali del Veneto. Gestisce dagli anni Ottanta un ristorante in provincia di Vicenza e ha scritto quattro libri. Insomma un pre-Cracco di livello da una terra che è sempre fonte di ispirazioni importanti. Abbiate rispetto per questo uomo. Che non conosco, ma risulta irresistibile per movenze e attitudine. Vabbè, vi saluto come farebbe lui: «Vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato e a dio piatzsendo arrivederci a domani, salve!»

Categorie
Biscotti

Non so cosa dirvi, davvero

Albero.