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Praticantato

L’omaggio di Cannes ad Agnès Varda

Articolo pubblicato su “La Sestina“, il quotidiano online della Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi”

Come ogni anno il Festival di Cannes attira l’attenzione dei cinofili con la pubblicazione della locandina della kermesse sulla costa azzurra, giunta quest’anno alla sua 72esima edizione. Il poster rilasciato dagli organizzatori è un omaggio alla regista belga Agnès Varda, premio Oscar alla carriera nel 2018, scomparsa a Parigi lo scorso mese a causa di un tumore. Contornato di sfumature arancioni, l’artwork richiama le atmosfere estive di Pointe Courte, il film del 1955 che consacrò l’artista tra gli avanguardisti del nuovo corso del cinema francese. L’immagine cattura Varda in una rocambolesca sessione di riprese sul set della pellicola, prima delle tredici portate dall’autrice al Festival, presentata proprio a Cannes nel 1955. Non è ancora chiaro quali iniziative saranno dedicate alla regista durante questa edizione, né sono giunte anticipazioni riguardo proiezioni speciali dedicate.

Festival de Cannes

@Festival_Cannes

All the way up. As high as she could go.
Agnès Varda will be the inspirational guiding light of this 72nd edition of the Festival!
La Pointe courte © 1994 Agnès Varda and her children – Montage & design : Flore Maquin.
More info: http://festival-cannes.com/en/infos-communiques/communique/articles/the-official-poster-of-the-72nd-cannes-international-film-festival 

Regista innovativa – Di Varda, è certo il contributo e il suo impegno nel e per il cinema. Nata a Bruxelles nel 1928 da madre francese e padre greco, Agnès inizia la sua carriera artistica a Parigi lavorando come fotografa al Théâtre national populaire, allora diretto da Jean Vilar. Nel tempo la passione e gli amori, quello tormentato con il costumista Antoine Boursellier, con cui ebbe un figlio poi riconosciuto dal suo secondo marito, quello della vita, il collega Jacques Demy, padre del suo secondo bambino. Eppure il tempo per Varda sembra essere trascorso in fretta, tanto che negli anni è rimasto inalterato il suo taglio di capelli “a caschetto”, marchio estetico inconfondibile, frutto di una decisione presa a 18 anni quando cambiò il suo nome da Arlette ad Agnès. Sempre libera, lei. Che dopo anni trascorsi a catturare l’immagine passa al movimento, girando a budget ridotto il suo primo lungometraggio, Pointe Courte, la pellicola che a detta dei critici apre al nuovo gusto francese in fatto di cinema. Ambientazioni semplici e suggestioni dal reale, vissute da personaggi che ricalcano un modo di essere che è linguaggio innovativo rispetto alla tradizione filmografica precedente.

La pellicola iconica – Lo stile del film è incentrato proprio su questa freschezza, di cui Varde si fa portavoce partendo proprio dallo stile smaliziato con una trama coinvolgente. Siamo nel quartiere di Pointe Courte a Sète (città nel sud della Francia dove la stessa Varde si trasferì con la famiglia ndr), una coppia di sposi, interpretata da Silvia Monfort e Philippe Noiret, vanno in vacanza nel paese di lui, esplorando il loro amore fragile e mettendo in discussione un matrimonio con qualche problema. La scenografia è contraddistinta da ambientazioni mediterranee in cui respirano umanità pescatori, donne vivaci e bambini intenti a giocare tra i gatti randagi. In 65 anni di creatività, l’omaggio di Cannes a Varda è doveroso e assume i contorni di una meditazione del pubblico sulla sua capacità di osare. Una qualità che proprio nella locandina di Cannes rivive e fa rivivere ciò che le valse la notorietà artistica, ponendola al centro delle sperimentazioni future del cinema francese, di cui rimarrà l’unica regista donna. Regista, prima di tutto.

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Attualità

La citazione più condivisa nel Darwin Day non è di Darwin

Oggi è il Darwin Day,  la giornata che celebra la nascita del naturalista britannico Charles Darwin. Come accade sempre in occasioni simili, le celebrazioni su internet impazzano prendendo il sopravvento su alcune cose importanti come, per esempio: controllare ciò che si pubblica.

Che sia per mancanza di zelo o per eccesso di entusiasmo, una delle citazioni più condivise sui social network per il Darwin Day non è stata mai profilata né scritta dal padre dell’evoluzionismo. Parlo di questa citazione qui, ripresa su Twitter da molti account. In questo caso – niente di personale – da Radio2:

Stando allo storico della scienza dell’Università di Cambridge John van Wyhe, però, la frase in questione è contenuta in un libro di formazione manageriale e non nell’Origine della specie, il libro che Darwin pubblicò dopo oltre venti anni di studio nel 1859. Certo, la frase racchiude superficialmente il senso del concetto darwiniano sull’adattamento delle specie, ma il padre dell’evoluzionismo non l’ha mai scritta.

Ora, non è finito il mondo né l’evoluzionismo è crollato come in molti desiderano. Questo post è un atto di amore verso un personaggio che ha aperto le menti con la sua intelligenza. Non si tratta neppure di una puntigliosa precisazione, ma solo di un’osservazione che offre un assaggio rispetto ai tempi che viviamo e al modo di diffondere informazioni.

Questo post, inoltre, è privo di qualsiasi superiorità: non sono uno scienziato né uno storico della scienza. Ma avendo studiato Darwin all’università in un corso di Storia del pensiero scientifico – con un enorme ritorno formativo e personale – una delle lezioni più belle è stata quella di capire l’importanza di condividere con curiosità ciò che si nota. Era un approccio valido nelle difficili e creazioniste stanze del sapere vittoriano in cui Darwin muoveva le sue teorie e lo è oggi in una realtà ricca di potenzialità ma che non ha meno bisogno di precisione e curiosità.

Come lo stesso Darwin ha insegnato a fare, dopotutto, condividendo i suoi scritti con colleghi, forse un post simile  è un buon modo per rendere giustizia a una delle menti più grandi che l’umanità abbia mai avuto. Perciò, una verifica prima di condividere non fa mai male, anche in virtù del metodo scientifico che fa della verificabilità uno dei suoi principi. Perché altrimenti postare cose contro i ciarlatani e l’anti-scienza imperante non ha senso. Facciamo così e pure l’anima del povero Charles sarà contenta.

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Biscotti

«È la mitomania, bellezza»

Il video del Washington Post trasmesso negli spazi pubblicitari dell’ultimo Super Bowl è un’americanata. D’accordo, andavano incollati gli occhi di una platea ampia di telespettatori e per riuscirci bisognava puntare su un contenuto ben confezionato. È comprensibile. In questo senso la parola “nazione” contenuta nella pubblicità o la bandiera svolgono già di per sé questa funzione, specie in un evento sportivo con il seguito che solo il Bowl riesce a raccogliere in termini di pubblico.

Per completezza va detto che nel video c’è anche una componente di forte discussione nel contesto della dipartita politica tra Bezos e Trump. Quel “Democracy Dies in Darkness” è la summa dello scontro tra i due. Tuttavia l’argomento è un altro: il contenuto del video alias il giornalismo. Da aspirante addetto ai lavori, come per qualsiasi persona «resa libera dalla conoscenza», come recita lo spot, si tratta di un contenuto ubriacato di luoghi comuni a stelle e strisce su cosa (non è) questa professione.

Non sto mettendo in discussione il ruolo degli operatori dell’informazione nel mondo, la loro presenza nella copertura dei fatti, né gli sforzi umani ed economici che compiono ogni giorno. Non polemizzo moralisticamente su quei 5,5 milioni di dollari sborsati dal quotidiano di Jeff Bezos per comparire in televisione perché se hai a disposizione certe cifre è perché ci sai anche fare. Dopo essere passato nelle mani di Bezos, infatti, il Washington Post è diventato un esempio virtuoso di rinnovamento del settore editoriale sia rispetto ai tempi che all’universo amazoniano – che sullo sfruttamento ci basa un impero. Perciò esistono certe cifre se si riescono a produrre certi numeri, anche al netto di risorse illimitate come budget di partenza. In generale, tutelare la professione giornalistica è un guadagnano per tutti.

Non sto parlando di certe dinamiche, dunque, ma di quel modo di interpretare la ricerca della verità nel giornalismo da parte di alcuni americani e del loro modo di parlare di “verità”, un concetto che non esiste come assoluto. Questo approccio edulcora ciò che muove la professione in mitomania assoluta. L’epica holliwoodiana, per esempio, è uno dei vettori principali di questo fenomeno. Non fraintendetemi, sono il primo a riconoscere l’efficacia di alcuni film che hanno permesso di far conoscere al grande pubblico diverse inchieste giornalistiche, da “Tutti gli uomini del presidente” con Redford e Hoffman fino al recente “Il caso Spotlight”. Come risultano altrettanto preziose tutte le raccolte e le antologia degli articoli più importanti pubblicati nell’ultimo secolo sulla stampa americana: lavori magistrali da studiare che sfiorano la letteratura.

Il punto è un altro: finché sei un* giovane con l’idealismo a scandire le tue giornate e le tue prospettive, video del genere fungono da carburante. Ma se non lo sei più ti viene da sorridere perché ti accorgi che, come succede spesso anche in Itali, anche tra gli stessi aspiranti, il passo dall’idealismo alla mitomania, dalla forma al contenuto, dalle buone intenzioni all’attivismo, è breve. E questo non è giornalismo, al massimo è mitomanismo.

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Biscotti

L’insostenibile leggerezza di essere Guerrino

Dai ragazzi, seriamente: se non avete mai visto questo uomo ai fornelli mentre aspettavate i cartoni animati delle reti provinciali potete tranquillamente affermare di aver avuto un’infanzia un pò così.

D’accordo, la ricetta non è il massimo e forse quel giorno al buon Guerrino Maculan non andava di cucinare. Posso rassicurare, tuttavia, sul fatto che Guerrino è uno chef provetto considerato un grande interprete delle ricette tradizionali del Veneto. Gestisce dagli anni Ottanta un ristorante in provincia di Vicenza e ha scritto quattro libri. Insomma un pre-Cracco di livello da una terra che è sempre fonte di ispirazioni importanti. Abbiate rispetto per questo uomo. Che non conosco, ma risulta irresistibile per movenze e attitudine. Vabbè, vi saluto come farebbe lui: «Vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato e a dio piatzsendo arrivederci a domani, salve!»

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Tobagismi

Nobukazu Kuriki, oltre la vetta

La Valle del Silenzio si trova nel percorso occidentale dell’Everest. La struttura topografica della vallata impedisce al vento di toccare le pareti e quindi di creare rumori. Nessun suono: solo ghiaccio e roccia.

Lo scalatore e alpinista giapponese Nobukazu Kuriki quella vallata l’ha attraversata più volte. Sul Chomolungmal, come viene chiamata la vetta più alta del mondo dai nepalesi, Kuriki ha cercato la gloria più volte – fallendo sempre.

Nel 2015 il Nepal è stato stravolto da un sisma che uccise 9mila persone. Tutto il movimento alpinista restò confuso davanti la prospettiva di nuove scosse. Molti appassionati e professionisti abbandonarono i campi base e ogni progetto di scalata nel breve periodo. In un periodo piuttosto osteggiato come l’inverno himalayano, Kuriki, invece, decise di tentare lo stesso insieme a un gruppo di guide sherpa. «Lo faccio anche per queste persone così che tutti sappiano che si può tornare su questi percorsi», disse.

In quella scalata Kuriki fu bloccato dalle condizioni atmosferiche proibitive. Ma la sua impresa fu altrettanto importante e utile a far tornare l’Himalaya un posto frequentato dagli amanti della montagna estrema. Un fatto importante anche per lo stesso Nepal, che vede nel turismo alpino il 4% del Pil.

Kuriki organizzò la spedizione senza bombole di ossigeno, privato di nove dita perse a causa dell’ibernazione cui andò incontro nella scalata precedente, e armato di macchina fotografica e videocamera. «Posso comunque trasportare e usare la mia attrezzatura», rassicurò prima di partire.

Kuriki provò per otto volte a scalare l’Everest, fallendo sempre. La maggior parte delle persone penseranno che c’è qualcosa di folle nelle sue fatiche, ma forse Kuriki è un esempio della perseveranza umana. Lo stesso New York Times lo ha inserito nella lista delle persone “che hanno vissuto” per il 2018. Ed è per questo motivo che, essendomene occupato nel 2015 con un articolo scritto male, sono rimasto colpito dalla sua scomparsa una volta letto l’articolo del quotidiano americano. Alla fine è morto sulla sua montagna.

Di lui rimangono le foto, i libri e i video che lo hanno reso anche un personaggio pubblico. Attraverso i racconti in streaming delle sue imprese, Kuriki ha cambiato un pò la visione dell’impresa alpinista e rendendola un gesto collettivo. Inoltre, ha attirato donatori e partnership con diversi network ed entità che hanno finanziato le sue imprese e i suoi progetti per la tutela dell’ambiente nepalese.

Nato a Hokkaido, Kuriki si è avvicinato alla montagna dopo la laurea in Sociologia all’Università Internazionale di Sapporo. In nove anni ha scalato tutte le vette più alte del mondo. A eccezione proprio dell’Everest, la sua grande sfida dove ha incontrato un altro silenzio: quello della morte.

Nel maggio scorso, infatti, arrivato al Camp Three – a 7470 metri di altitudine – l’alpinista ha avuto un malore e ha chiamato aiuto. I soccorsi giungeranno tardi: Kuriki morirà il 21 maggio 2018 a 35 anni sulla facciata sud-est dell’unica vetta che non è riuscito a scalare. Dopo qualche giorno, il suo corpo fu recuperato in un crepaccio a cento metri dal luogo della chiamata con segni evidenti di caduta. L’ultimo post: «Spero di far salire il mio spirito con tutti voi».

 

 

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Tobagismi

Orgoglio napoletano Liberato

Se ne sono dimenticati in molti: essere popolari senza essere populisti è possibile. E Liberato ne è la dimostrazione concreta – e artistica – più importante degli ultimi mesi. Questa è un’analisi – opinabile – del primo video della cosiddetta “Trilogia di maggio”, la serie di video musicali che lo hanno reso conosciuto in tutta Italia. L’invito è suscitarvi curiosità al punto da vedere anche gli altri episodi. Il tappeto sonoro all’articolo è “Tu T’è Scurdat’ ‘e Me”, il primo della serie:

Ok, ma chi è Liberato? Dopo aver pubblicato il suo brano di esordio “Nove maggio” su YouTube, l’artista napoletano ha postato a ridosso dell’estate una serie di video musicali che, nonostante l’ordine sparso, creano la “Trilogia di maggio”.

Sul piano artistico Liberato rappresenta una delle interpretazioni artistiche moderne della anime di Napoli. Sempre incappucciato e dall’identità ignota, su di lui è stato detto molto ma poco è venuto fuori. I numeri, comunque, sono dalla sua: 20mila persone sul lungomare Mergellina nel primo live e data sold-out nella tappa a Barona, periferia sud di Milano. Non mi pare poco, soprattutto per quello che è riuscito a esprimere in un ambiente artistico così brillante come quello napoletano.

Da Marco Carola ai Nu Guinea (che però vivono a Berlino), ad artisti – grafici – incredibili come La Badessa, Liberato si colloca nella New-Napoli che affonda le radici nel funk e nel jazz espresso dagli anni Settanta in poi del Novecento. Ma non solo: Liberato è Masaniello disilluso dalla vita che crede nell’amore nel 2018 facendo le impennate con l’Sh a Forcella senza un motivo; è una nota di divinità pagana vesuviana piena che crede nei dettagli attraverso elementi trap e dance. In una parola: Liberato racconta il quotidiano con realismo artistico senza dimenticare le proprie origini in un racconto sincero del proprio sguardo sul reale.

In questo primo video c’è il ragazzo che fa la mista, gira e accende la canna. Le luci dei chioschi dietro. Il mare davanti. Sera che chiama l’estate. Il campo da calcio in mezza alla piazza. Le impennate davanti ai palazzi con gli scooter fino a toccare le targhe. Così stupidi ma così vivi e veri.

La bellezza della piazza. Lo sfiorarsi in sella a un scooter che ti fa sentire vivo. Un tuffo dallo scoglio nel mare blu. Lei sfiorata dalla salsedine con la pelle ambrata che lo guarda come a dire “basta fare il galletto con me, vieni qui e passiamo del tempo assieme”. E allora il riflesso dell’acqua marina sulle loro guance. Lo sguardo di lui con Gesù Cristo che penzola dalla catenina. I silenzi. Sono giovanissimi, bellissimi, così veri, appunto.

Si baciano che sanno di mare sotto un pontile arrugginito con i piedi nell’acqua scura d’ombra. E allora baci, baci ovunque. E non ti viene mai da dire “che balle”. Quel retro del ristorante dello stabilimento, davanti casse d’acqua di plastica rossa che poi torneranno e come, se torneranno. E allora sulla scalinata. E si rivedono, tra le vie, dentro un bar sopra le macchinette con lui che comunque uno sguardo al goal di Lorenzo Insigne lo da con l’amico che fa il gesto del “trombare” (iper-reale). In una parola: Napoli Liberata.

Le differenze di classe tra i due ragazzi, le amicizie e le abitudini diverse. Il piede sulla trapunta durante la prima volta con le foto dei parenti che fanno piombare all’epoca in cui di privacy sessuale ce n’era ben poca. Gli ingressi ai locali che non potevi permetterti con certi tagli di capelli.

Aiutato da un grande regista come Francesco Lettieri, già autore dei video di The Giornalisti e Calcutta, Liberato canta con apparente distanza dalle inquadrature le peripezie dei due giovani amanti. Come in un romanzo settecentesco indossa la sua vestaglia, oggi bomber in sintetico, per raccontare dall’alta l’ennesima storia d’amore della sua città. Che sull’umanità ha imparato a prendere bello perché ha imparato a guardare il mare.

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Quando Guttuso raccontava le rivoluzioni di Parigi

Oggi non ci saranno musiche di sottofondo perché questo post è basato su un video. Il protagonista è Renato Guttuso che racconta la rivoluzione francese del 1789 partendo dai luoghi di Parigi e dal rapporto di amicizia tra il pittore David e il rivoluzionario Marat.

Sono settimane che la Francia sta vivendo quella che è stata definita come una “rivoluzione” pur senza comprendere la direzione politica del movimento nato per protestare, tra le tante cose, contro i rialzi delle accise sui carburanti volute dal governo Philippe-Macron.

È stato commesso un errore sulla valutazione di ciò che sta accadendo in Francia: i gilet gialli propongono cambiamenti sul versante sociale come non accadeva da anni. Bisognerà solo capire se questo versante sociale si tramuti in “giustizia sociale”. Questo è il punto cruciale: il problema resta la direzione che questo fenomeno (para)politico avrà sullo scenario francese – ed europeo.

Non è ancora noto quanto le infiltrazioni populiste e nazionaliste, infatti, reggano l’intera organizzazione che si scontra con la polizia e con un preciso agente politico macronista.

Bisognerà aspettare e vedere cosa succede. Nessuno ha doti per rivelare verità su questo aspetto né tantomeno prevedere quale riflesso verrà creato dalle rivolte dei gilet gialli sui paesi vicini. Italia inclusa, ovviamente. Anzi qualcosa lo abbiamo già visto.

Da questo documentario Rai del 1972 curato da Anna Zanoli e diretto da Luciano Emmer, possiamo ottenere, invece, uno sguardo indiscreto su una Villa Lumiére che ha intrinseca nella sua storia una vocazione provocatoria e ribelle spesso pericolosa.

Da questo video, inoltre, possiamo notare la differenza di linguaggio e l’interpretazione artistica sublime che Renato Guttuso dava dell’atto rivoluzionario e dei rapporti umani che questa creava o rafforzava. In poche parole questo video fa comprendere come un evento colossale come una rivoluzione possa legare vite com’è inscritto nella suastessa natura di pratica umana degli eventi politici e sociali.

Parigi è un luogo di rivoluzioni – borghesi nella maggior parte dei casi – dove il concetto di storia si è concretizzato in un filo lungo 300 anni. Ma Parigi e la Francia tutta sono anche luoghi in cui le persone scendono in piazza dal XV secolo per manifestare contro le esagerazioni e le ingiustizie sociali anteposte dai governi. In questo senso il viaggio di Guttuso rimane attuale. Lo rimane di meno, purtroppo, per la poesia, la virtù e l’ampiezza di respiro sociale rappresentato dal rapporto tra David e Marat.

Guttuso ricerca nell’arte e in loro un mondo che sembra scomparso e che oggi qualcuno vorrebbe far rivivere senza però volersi assumere le responsabilità di un legame umano oltre che politico. E permetteva alle persone di non avere troppi dubbi nello scendere in strada spalla-a-spalla. «La rivoluzione si fa tra amici», parola di Guttuso.

 

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Biscotti

Biscotto #2: Gian Maria Volontè, un uomo dentro

Nel cimitero della Maddalena, tra la terra e la brezza del mare sardo, c’è una lapide con una frase di Paul Valery incisa sopra: «S’alza il vento, bisogna tentar di vivere». E lui, Gian Maria Volontè, ci è riuscito.

E continua a farlo rimanendo nella memoria anche se da quel 6 dicembre del 1994, quando moriva proprio davanti al mare, sul set, è passato molto tempo. Quel che è certo giorno scompariva uno dei più grandi attori che la settima arte abbia mai avuto.

Milanese di nascita, piemontese d’adozione, è nato da padre milite fascista – poi arrestato e morto in carcere (forse per le botte delle guardie penitenziarie) – e da una madre originaria di una facoltosa famiglia industriale lombarda.

È stato esponente del cinema politico italiano, ha ottenuto premi prestigiosi e lavorato a grandi film con registi del calibro di Leone e Petri. Iscritto al Pci dagli anni Settanta è stato cacciato dal partito perché aveva aiutato un amico condannato a 16 di reclusione a fuggire dall’Italia.

Ha amato con passione seguendo se stesso senza dimenticare i meleti francesi dove lavorava per aiutare la madre sola o le maschere incontrate nei camerini teatrali dove ha iniziato da costumista e attore delle opere ottocentesche; le privazioni vissute con la madre nel quartiere torinese di San Salvario, il mare che sovente attraversava in barca a vela.

Non c’è bisogno di scrivere un articolo commemorativo, ne sono stati scritti parecchi e io non sono Enzo Biagi. Ma basti pensare che questo uomo aveva coscienza e si sentiva parte di una società che esprimeva attraverso i personaggi inventati: perciò le generazioni più giovani ancora lo apprezzano.

Ecco un biscotto in quattro video per ricordare Volontè, un uomo. Che non era solo “contro”, ma soprattutto era dentro.

Giornalismo e realtà. Da “Sbatti il mostro in prima pagina”, regia di Marco Bellocchio, 1972:

Il rapporto tra istituzione, uomo e potere. Dal film premio Oscar “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, regia di Elio Petri, 1970:

L’alienazione nella produzione. Da “La classe operaia va in paradiso”, regia di Elio Petri, 1971:

Se l’ideale supera il giudizio. Da “Sacco e Vanzetti”, di Giuliano Montaldo, 1971:

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Tobagismi

Le Milano di Walter Siti

Ho pubblicato questa intervista sul numero 1 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – e ripaga gli sforzi di tutti noi.

copertina

Penne e taccuini sono posati sul letto che ha nello studio della sua casa milanese in zona Mo- scova. Nessuno può toccarli. «L’ordine mi serve per ragionare quando scrivo», dice. Sugli scaffali, cartoline di dipinti e libri formano una folla di soggetti d’arte e letteratura. Walter Siti è autore erudito e umano. Emiliano, normalista, si è sporcato di periferie romane. Nei suoi libri ci sono brandelli di vita e ombre, di promesse disattese. Dagli anni ’50, tra le gare di atletica e i consigli di Pasolini sulla stesura della tesi, i soggiorni parigini, gli incontri, la formazione intellettuale di un figlio della campagna modenese. Dice: «Diamoci del tu».

Perché ora qui?

«Per scappare da Roma e da una rela- zione. Era il 2012. All’inizio non mi trovavo bene, anche per il clima. Poi ho smesso di lamentarmi, era un esilio volontario».

L’anno dopo hai vinto lo Strega.

«La cosa ha avuto effetti nei negozi. Le signore borghesi si complimentavano, ma dopo un anno non mi riconoscevano. I fruttivendoli, invece, mi tengono le primizie da parte. Per quello lo Strega è servito [ride]».

Cosa hai scoperto qui?

«Che vivo in una città segreta dove bisogna cercare. Mi interessa la pittura e trovo che luoghi come la chiesa di Sant’Eustorgio, una meraviglia con affreschi di Foppa e del Cossa, come Il miracolo della falsa Madonna dove la Maria e il bambino Gesù hanno le corna, siano vicini alla città».

Perché ci vedi Milano?

«Perché Milano ha un’anima oscura ed eretica che ritorna nella sua storia in modo anti-gerarchico. Da opere simili, come dal David di Tazio da Varallo fino al Barocco sanguinolen- to adorato da Testori, è nata un’altra città».

Quale?

«Quella alto-borghese, anche se sono stato pure a Quarto Oggiaro, Baggio e in realtà occupate. A differenza di Roma, dove la povertà è legata a un filo continuo che unisce i ceti sociali in rapporti da “mondo di mezzo”, a Milano percepisco due città che non si toccano mai».

Questo cosa comporta?

«Per me, da anziano che affronta il tempo, significa rimanere individualmente disperati. Funziona tutto e non c’è spazio per la condivisione: la disperazione è tua e te la tieni. Altrove questa è vicina agli altri. È consolatorio e angosciante».

Più città in una, direbbe Calvino.

«Sì, qui c’è un criptorazzismo espresso con insofferenza. Così le energie utili a combattere il razzismo che diventa legge si esauriscono. C’è una presa di distanza diversa dalla prosemica che Franco Fortini definiva “media durezza europea”. Di fronte a un’ondata di stranieri, che non è un’invasione, la risposta è un arretramento educato per mantenere il proprio status».

Dal tuo ultimo libro: «Cosa vuol dire che vengono prima gli italiani?», «Gli altri vengono sempre prima, italiani o no». Che significa?

Il dialogo conferma che Milano è una città doppia. Per fortuna ci sono forme di solidarietà che offrono una controtendenza permettendo di sentirsi liberi da atteggiamenti di gratitudine forzata o esclusione.

Amore o bontà?

Sono incomparabili. L’amore può essere tutto, fare il bene o il male. È am- pio, il greco ha tre parole per definirlo. La bontà, invece, è un atteggiamento che preferisco, specie se individuale. Diffido di quella collettiva perché tende a diventare retorica rischiando l’esibizione. Non ci sono buoni uguali nello stesso posto. Vengo da una realtà contadina, dove la bontà è fatta di persone che si rimboccavano le maniche. Non sono sicuro che la bontà faccia sempre il bene sociale. Prendiamo Madre Teresa, la cui bontà è considerata fuori discussione. Diceva che non bisognava abortire, cosa giusta per i cattolici. Demografica- mente, però, la sovrappopolazione è un problema e in alcuni Paesi la regolamentazione delle nascite sarebbe opportuna. La sua bontà provocava problemi anziché vantaggio sociale.

Torniamo in città: perché Milano è efficiente?

Per la storia. Un buon governo non si vede subito, ma sui tempi lunghi. Dal Settecento, la Lombardia ha avuto una buona amministrazione che ha lasciato un segno nei cittadini. Pare che il concetto di Kant, per cui il tuo comportamento deve essere la norma generale, si sia interiorizzato. Perfino le persone più semplici lo dicono.

Fosse vivo, Pasolini passerebbe da Milano?

Pasolini ha lavorato qui per fare un film intitolato La nebbiosa. Per un mese incontrò personaggi della periferia. L’impressione è che già allora non si trovasse bene perché mancava il sottoproletariato e trovava solo persone con l’ambizione di imborghesirsi. Lui si è interessato poco agli operai e sarebbe stato solo sfiorato dalla crisi post-industriale. Odierebbe la Milano odierna.

Le fabbriche. Come reputi il contributo proletario?

Il proletariato milanese è stato importante. Il socialismo è stato fondato qui. L’occhio al sociale deriva dal fatto che ci sono sempre stati i soldi e ci si è posti domande su come distribuirli. Le differenze nate dai contrasti tra operai e crumiri hanno creato un’aristocrazia operaia composta da lavoratori orgogliosi del loro mestiere, con ruoli di mediatori nei processi di coscienza professionale e integrazione sul lavoro.

Si sente l’assenza di questa coscienza?

È una lacuna educativa. Oggi bisogna riflettere quando si sente dire che il popolo ha ragione senza pensare alla sua educazio- ne: un popolo ignorante avrà sempre torto.

Milano è un centro culturale. Sarà importante per il futuro?

La cultura scientifica è più forte mentre quella umanistica è sotto attacco. Le case editrici, cuore della cultura milanese, sono in crisi al punto che gli editori esteri vengono qui pensando di fare shopping. Le ripercussioni sono pesanti e i gruppi non esistono più. Qualcuno si vede a cena e bevicchia, ma poi scade nel pettegolezzo. La voglia di parlare di cultura ed elaborare idee si è polverizzata.

Le nuove generazioni e la subcultura aiuterebbero?

Sì, la cultura giovanile a Milano esiste ma non ho la forza di andare a vederla. Credo che sarei fuori luogo.

Che farà Walter Siti da grande?

Morirà.

A Milano?

Sì, penso che sia la mia destinazione. Ho vissuto a Modena, Pisa e Roma. I miei ultimi anni li passerò qui.

Per poi andare al Monumentale, dove dici che ti piace passeggiare?

Lì va solo chi ha onorato la città. Andrò in un cimitero comune. Devo risparmiare le ultime forze rimaste e questo è un posto buono per massi- mizzare gli sforzi. Ho bisogno di una città grande come Milano. Del mondo intorno.

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E’ tornato Nanni Moretti (anzi no!)

di Giacomo Salvini

«L’artista non deve integrarsi. L’artista è un anticorpo che la società si crea contro il potere», Fabrizio De Andrè.

E’ tornano Nanni.

Lo ha fatto dopo anni di silenzio. Come sa fare lui, senza alzare mai troppo la voce.

A tre anni da Mia Madre, Nanni Moretti tornerà a prendersi la scena domani a Torino per presentare il suo Santiago, Italia, documentario sul golpe cileno del 1973 che rovesciò il governo del socialista Salvator Allende.

Ma il docu-film non è la cosa più importante di oggi.

Sì, perché Nanni Moretti dopo anni di silenzio ha deciso di rilasciare una succosa intervista al Venerdì di Repubblica in cui ha parlato di tutto: d’Italia, di politica, di Roma, di se stesso.

E come al solito, con quell’eloquio un po’ paternalistico e un po’ canzonatorio, Moretti si è issato a moralizzatore della vita pubblica (quello è «fascista», quell’altro è «incompetente», la «rete» ha rovinato tutto, signora mia!).

E non è mancata la pubblicità al suo documentario. Dopo poche ore, infatti, il suo paragone tra Salvini e Pinochet («quando è diventato Ministro dell’Interno ho capito perché avevo girato il documentario») era l’apertura di tutti i siti di informazione e stamani di molti giornali.

Eppure no, caro Nanni, non è più il tempo di quando omaggiavi Pier Paolo Pasolini in Caro Diario o di quando cantavi Battiato in Palombella Rossa. Né tantomeno dei quattro sfigati sessantottini di Ecce Bombo o del Caimano che ha ispirato un’intera generazione di giovani.

Non lo è più per un motivo: chi ha sempre creduto nella sinistra, nell’uguaglianza, nella democrazia, perfino in quella cosa chiamata socialismo che tutti i giorni forniva una pagnotta agli operai di Mirafiori o alle massaie di Reggio Calabria, tu sei stato un simbolo a cui aggrapparsi in momenti difficili. Sei stato quel volto a cui assomigliare, abbracciare e perfino osannare in Piazza Navona quando il (vero) “Caimano” approvava il Lodo Alfano o il legittimo impedimento e tu pregavi D’Alema di «dire qualcosa di sinistra».

Sono venuti a vedere i tuoi film, i tuoi dibattiti, hanno letto le tue interviste. E sempre con lo stesso spirito: pensare che in mezzo al deserto, ci fosse ancora da ascoltare.

Il_portaborse_Nanni_Moretti

Poi, sei sparito. Improvvisamente.

Quando veniva precarizzato il lavoro, i giovani italiani fuggivano a lavare i piatti nella city, si tentava di stravolgere la Costituzione a cui tu stesso eri sempre stato legato, sei sparito. E come te Roberto Benigni, Michele Serra, Gad Lerner, Michele Santoro.

E questo solo perché al potere non c’era più il “puzzone” ma un giovane ragazzo di centrosinistra, impomatato fino alla collottola pur di sembrare il “nuovo”.

E allora no, caro Nanni, oggi i tuoi vecchi ammiratori non ti credono più.

Continuerai a fare dei film bellissimi ma rimarrai sempre e solo uno dei più grandi registi italiani.

Gli intellettuali, quelli veri, sono altri.

Questo articolo è stato scritto da Giacomo Salvini, autore del blog “Il Transatlantico” che potete leggere qui.