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L’amore che rompe l’etichetta, quando un regnante sposa un borghese

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L’amore fuori dalla corte regale esiste. Come nelle fiabe più suggestive, anche nella realtà le unioni tra regnanti e commoner, come vengono definiti i non-nobili, hanno contraddistinto le vicende delle casate reali più importanti del mondo. L’ultimo ad aver trovato consorte al di fuori dell’etichetta è stato il re di Thailandia Rama X, che ha annunciato alla vigilia della sua incoronazione a guida suprema dell’arcipelago di aver sposato Suthida, arruolata nella Guardia Reale nonché ex-hostess della compagnia di bandiera nazionale Thai Airway.

Rivoluzione asiatica – Un matrimonio, quello ufficializzato a Bankgok, che si affianca alla rivoluzione avvenuta nella più antica casa reale in carica, quella del Giappone. È notizia di pochi giorni fa, infatti, il cambio al trono del regno del crisantemo, con Akihito che ha abdicato per motivi di salute in favore del figlio Narohito. Una decisione storica che apre alla rewa, la “nuova era” del Paese del Sole Levante anche in termini di relazioni. Il successore di Akihito, anch’egli legato alla figlia di industriali Machiko, è sposato dal 1993 con l’ex-diplomatica Masako, oggi imperatrice.

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L’Imperatore del Giapponese Naruhito e l’Imperatrice consorte Masako insieme alla figlia, la Principessa Aiko

In una fase della relazione, Masako, definita dalla stampa giapponese come “la principessa triste”, cadde in depressione anche a causa della stringente etichetta e dell’isolamento della corte. Oggi le cose vanno meglio e la neo-imperatrice ha superato ogni problematica cortigiana e personale e ormai le tradizioni regali sembrano attenuate. La loro nipote, infatti, la principessa Mako, ha deciso di seguire le orme della zia Sayako: entrambe sono legate a borghesi. La prima sposerà tra un anno il suo compagno, un impiegato di uno studio legale di Tokyo; la seconda è sposata dal 2005 con un funzionario pubblico con il quale vive in una casa nella capitale.

Sport, cultura e spettacolo – Gli incontri tra nobili e persone comuni avvengono nei contesti più disparati. Lo sport sembra essere uno di quelli in cui molti reali cadono in amore. Un caso su tutti vede l’unione dal 2011 tra il Principe Alberto di Monaco e l’ex-nuotatrice sudafricana Charlene Wittstock, conosciuta durante una gara natatoria. Oggi la coppia regna sul principato e hanno dato alla luce due gemelli, Jacques e Gabriella.

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Filippo e Letizia di Spagna

Meno famose, invece, ma comunque legate allo sport le vicende sentimentali di due regni scandinavi, quello di Svezia e quello di Danimarca. Nel primo caso, l’erede al trono svedese, la Principessa Vittoria, si innamora di Daniel Westling, ingaggiato come personal trainer di corte e finito per passare dai pesi al titolo di Duca. In Danimarca, furono cruciali le Olimpiadi di Sidney 2000. È lì che l’erede al trono della corona danese, il Principe Frederik, incontrò Mary Elizabeth, sua moglie dal 2003, presentandosi sotto mentite spoglie come “Fred”.

I retroterra delle dolci metà regali includono anche il mondo dello spettacolo e della cultura. Indimenticabile il ricordo di Grace Kelly, volto iconico e malinconico, passata dal sole californiano di Hollywood a quello della Costa Azzurra, dove fu Principessa consorte di Ranieri III di Monaco. Da romanzo anche l’incontro tra il Re di Spagna Filippo e la Regina Letizia. I due si incontrarono in Galizia, dove lei era inviata come giornalista della Cnn per raccontare un disastro ambientale provocato da una perdita di petrolio, con il Principe accorso per far visita alla popolazione colpita dall’incidente.

Il caso Windsor – Sempre sul filo del rotocalco, invece, le vicissitudini amorose in casa Windsor. Non è un caso, infatti, se le cronache della famiglia reale inglese hanno ispirato la pluripremiata serie “The Crown”. Il lato più apprezzato dai giornali scandalistici d’Oltremanica inizia con Edoardo VIII, che nel 1931 rinunciò al trono di San Giacomo per continuare il suo matrimonio con l’americana dal passato tormentato Wallis Simpson. Famosa la frase che la stessa Simpson disse sulla devozione del Re: «How can a woman be a whole empire to a man?», «Come può una donna valere più di un impero per un uomo?».

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Edoardo VIII (a destra) e Wallis Simpson

Da lui fino a Carlo e Diana, la cui storia è arcinota, il legame tra nobili britannici e comuni mortali è continuato proprio con i figli di Lady D: l’arrivo all’altare nel 2011 di William e Kate. I due si incontrarono nelle aule della prestigiosa Università di St. Andrews, in Scozia, dove i due studiarono e iniziarono una relazione decennale convolata nelle nozze dal forte appeal mediatico all’abbazia di Westminster. La Middleton, figlia di una famiglia legata al mondo degli affari e della politica, oggi è duchessa di Cambridge e Principessa dell’erede al trono inglese, nonché madre dei principini George, Charlotte e Louis. La loro unione, sulla scia dell’amore popolare per Lady D., è riuscita a far accettare la cosa, seppure con le dovute riserve. Riserve che, invece sembrano al centro dei problemi della recente coppia di sposi, il fratello Harry e l’attrice yankee Meghan, che si dice essere osteggiata dalla stessa Regina Elisabetta.

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Attualità Biscotti

Candreva azzecca un cross

Sono interista e Antonio Candreva non è uno dei giocatori che brilla per le prestazioni sul campo. Quando viene schierato sulla fascia i suoi cross non suscitano emozioni né occasioni da rete. Eppure il gesto che il calciatore romano ha fatto, pagare la retta della mensa a una bambina in una asilo di Verona, è un cross decisamente azzeccato. Un piccolo gesto, ma importante, che ha fatto il giro del mondo e si scaglia contro il freddo della burocrazia che trova in un clima politico italiano preciso un terreno fertile per proliferare.

«Eh vabbè, ma tanto quello, Candreva, guadagna milioni all’anno. Deve farlo», il commento medio. E quindi? Non c’è niente di scontato, tantomeno di dovuto. Questo gesto di solidarietà, che richiama a una vicinanza rispetto a temi sociali come, in questo caso, l’inclusione sociale dei bambini nelle scuole, a prescindere dall’etnia di appartenenza, è sempre stato triste vedere un bambino escluso a scuola, qualunque sia il motivo. Il gesto del calciatore di Tor De’ Cenci verso quella bambina destinata da a pranzi a base di tonno e cracker sulla scia che “eseguire” è più giusto, e forse più facile, di “integrare”, è un bel gesto. Punto.

Che risveglia pure un senso di comunità, se si vuole. Candreva di traversoni simili ne aveva già fatti, come quando contribuì a sostenere le vittime del sisma che colpì l’Aquila. In questi giorni ne ha azzeccato un altro, di traversone. Anzi: forse il termine “azzeccato” è inappropriato poiché legato al caso, al fortuito. Qui siamo davanti a un’intenzione. Candreva ce l’ha avuta, questa intenzione. Ce l’ha avuta “di questi tempi”. «Ma non ho ancora fatto niente», dice. E va bene, Antò, un cross alla volta.

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Attualità

Viktor Orbán, un populista

Budapest, giugno 1989. I gruppi di opposizione all’occupazione sovietica, in accordo con l’ala riformista comunista ungherese, decidono di disseppellire la bara di Imre Nagy, il politico magiaro a capo della fallita rivoluzione del 1956 poi ucciso dai servizi segreti di Mosca. 

C’è un’atmosfera di omaggio a 31 anni da quell’assassinio e un giovane laureato in legge con un passato da calciatore professionista di nome Viktor Orbán supera la folla con i suoi compagni tenendo un discorso contro l’invasione russa in Ungheria. Cinque mesi più tardi il muro di Berlino cadrà e con esso anche l’Unione Sovietica, che inizierà la smobilitizzazione delle truppe dai paesi sotto l’influenza della cortina di ferro. 

Ascesa al potere
Un anno più tardi, nel 1990, quello stesso ragazzo conquisterà il suo primo posto nel parlamento di Budapest, iniziando la sua corsa al potere con un partito populista e conservatore creato a sua immagine e somiglianza, Fidesz.

La sua ascesa è rapida e nel 1998 conquisterà la presidenza ungherese a soli 35 anni diventando il più giovane capo di stato nella storia del paese. Da allora la politica dell’Ungheria è direttamente connessa alla figura di questo avvocato proveniente da Székesfehérvár, città nel cuore dell’Ungheria, nonché capitale del paese epoca medievale, dove ha vissuto con la famiglia sostenuta dal padre controllore tecnico presso le miniere locali. Lo scorso 8 aprile Orbán ha ottenuto il suo quarto mandato, il terzo consecutivo, conquistando il 98 percento dei voti. «Un voto espressione del popolo» chioserà il premier slovacco Peter Pellegrini quando l’Unione Europea denuncia le forti influenze governative sulla campagna elettorale in Ungheria.

Il dato non ha sorpreso gli analisti politici perché in Ungheria, stando alle denunce delle associazioni, come alle manifestazioni auto-organizzate da milioni di cittadini ungheresi, la richiesta di un maggiore spazio al dibattito politico e alla pluralità dei mezzi di informazione creano domande lecite sull’effettiva qualità del consenso ottenuto da Orbán.

Lo scenario politico in Ungheria ha anticipato spesso le caratteristiche delle politiche populiste in Europa. Molti dei paesi centrali, come la Polonia e l’Austria, hanno guardato a Orbán come a un modello da seguire. Le sue politiche interne creano molto imbarazzo a Bruxelles, dove è osteggiato da gran parte dei rappresentanti politici del Vecchio Continente. Specie dopo il dibattito con Angela Merkel sulla costruzione di barriere al confine meridionale con la Croazia e la Serbia, volte a respingere il passaggio dei migranti dal Medio-Oriente, Orbán ha ottenuto da un lato una condanna generale ma dall’altro anche molti consensi tra i suoi estimatori, tra cui figurano Salvini, Le Pen e Trump, che lo ha definito «forte e coraggioso».

Zone d’ombra e repressione 
Il clima politico che si è creato in Ungheria è stato reso possibile attraverso il controllo totale dei mezzi di informazione da parte del governo centrale. Nel 2017 i 18 maggiori quotidiani regionali ungheresi sono stati acquisiti da oligarchi filo-governativi. Che è la stessa categoria imprenditoriale che Orbán aveva messo nel mirino durante gran parte degli anni Novanta, quando in Ungheria gli oligarchi col passato comunista spadroneggiavano nella speculazione legata alla privatizzazione delle aziende. La differenza è che gli attuali, di oligarchi, sono suoi alleati. Dalla caduta dell’Urss la classe dirigente è cambiata e l’attuale corpus industriale non ha pochi rapporti col passato sovietico del paese, così l’Ungheria del boom economico è anche il paese europeo con un tasso di corruzione tra i più alti in Europa.

Le stesse ricchezze della famiglia di Orbán sono al centro di diverse inchieste, come quella avviata nel marzo scorso dall’Ufficio Europeo Anti-Frode dell’Unione Europea. Secondo l’edizione ungherese di Forbes, inoltre, Orbán avrebbe ottenuti ricchezze per circa 750 milioni di dollari, divenendo il secondo uomo più ricco di Ungheria dopo il banchiere Sándor Csányi. Vaste zone d’ombra collegano lo stesso presidente ungherese in affari milionari nei settori strategici e di sviluppo, che sono curati da suoi parenti e amici imprenditori.

«Paradossalmente la libertà di espressione era maggiormente garantita durante il regime comunista»

Per mantenere la discrezione su scenari così torbidi, Orbán ha usato tutto il potere politico per soffocare l’informazione indipendente in Ungheria. E lo ha fatto al punto che la Commissione nazionale per la regolamentazione radiotelevisiva è divenuta anche nota come  “la commissione incompleta” che, grazie ad alcune modifiche alle leggi fatte da Orbán stesso, oggi è composta da soli esponenti di Fidesz. Il piano di controllo dei mezzi di informazione è, tuttavia, solo una parte dell’espressione del potere politico e dell’opulenza accumulata dal leader di Fedesz in dieci anni. In generale i meccanismi che hanno concesso tali libertà a Orbán funzionano perché è stato capace di annullare l’opposizione proprio attraverso l’isolamento mediatico. 

«Paradossalmente la libertà di espressione era maggiormente garantita durante il regime comunista», mi spiega Claudia Patricolo, una ex-compagna di corso ai tempi dell’università che ora lavora come Deputy Editor per Emerging Europe, un magazine britannico che si occupa esclusivamente di Centro ed Est Europa. «Dopo il 1989 sono nate decine di testate, canali televisivi e radio private ma si tratta di una pluralità solo apparente – continua – I primi ministri che si sono succeduti negli ultimi anni hanno cercato di mettere un freno all’informazione obiettiva, controllando i mass-media attraverso leggi ad hoc e nomine di redattori a loro favorevoli».

Svolgere un’attività giornalistica libera in questo paese è difficile. Alcuni attivisti, osservatori di ONG e cronisti rischiano il posto di lavoro ogni giorno nell’Ungheria di Orbán, che sta realizzando il suo piano di realizzazione di un «governo illiberale», come ha sottolineato lo scorso gennaio tra il plauso dei suoi alleati politici. «Alcuni giornalisti attivi negli anni ’70 – racconta Claudia – mi hanno spiegato la difficoltà nel pubblicare notizie non approvate dal governo. Era difficile, ma non impossibile. Quando ci fu il disastro nucleare a Chernobyl, per esempio, L’Urss vietò di parlarne per non minare l’immagine del regime. Tuttavia molti giornalisti usarono i comunicati stampa delle ambasciate straniere, considerate anche dall’Urss come istituzioni ufficiali, e riuscirono a pubblicare la notizia ugualmente. Un modo si trovava sempre, dopotutto. Oggi, invece, trovare quel modo puo’ farti perdere il posto».

Un poster elettorale di Viktor Orbán in una strada di Budapest, nell’aprile del 2018. Credit: Adam Berry/Getty

“Noi vs. Loro”, un classico moderno
Andare contro Orbán significa prima essere additati come “nemici del popolo” e poi come “amici del sistema”. Questo genere di illazioni, insieme a una efficace speculazione storica perpetrata abilmente da Orbàn, hanno permesso al presidente ungherese di costruire una vera e proprio post-ideologia che è difficile da scalfire attraverso un giornalismo osteggiato e represso: essere inserito nella lista nera degli oppositori significa crollare.

«I pochi canali indipendenti vivono di autocensura – mi spiega Claudia – e chi non lo fa rischia di chiudere. Nel 2016 qui tutti ricordano cosa è accaduto al giornale di sinistra Népszabadság: all’improvviso è stato chiuso e i suoi dipendenti mandati a casa. Per evitare lamentele i proprietari hanno “concesso” altri tre mesi di stipendio, facendo passare il gesto per una gentile concessione del governo centrale quando invece in Ungheria la legge prevede espressamente il pagamento di tre mensilità, equivalenti al nostro sussidio di disoccupazione. Nei casi in cui le proprietà non siano legate al governo – prosegue – il destino dei giornalisti, e di quello che diranno, è nelle mani dei capi redattori. Possono essere fortunati e trovare qualcuno che si batta per loro. Tre anni fa, avevo letto un report su un possibile giro di riciclaggio di denaro mascherato in alcuni conti correnti inesistenti a Malta e a Cipro. Volevo approfondire la questione: mi é stato sconsigliato».

Nonostante il pugno duro di Orbán, molte organizzazioni internazionali e ungheresi, l’altra grande categoria osteggiata dal leader di Fedesz, monitorano l’ambiente democratico del paese. Alla vigilia della tornata elettorale di aprile l’Osce ha espressopreoccupazione per la mancanza di pluralità nel dibattito pubblico ungherese e sull’influenza di questo aspetto sui risultati elettorali.

«Non sono state elezioni obiettive e Fidesz è stato quasi l’unico protagonista, ma non possiamo parlare di irregolarità dal momento che la legge ungherese non prevede dibattiti o spazi definiti per l’opposizione dopo le modificazioni create da Orbán. Se teniamo in conto gli avvenimenti degli ultimi giorni, l’Ungheria ha davanti a sé quattro lunghissimi anni. A meno di 48 ore dalle elezioni, il quotidiano conservatore a maggiore tiratura, Magyar Nemzet, ha chiuso per motivi economici. Guarda caso il proprietario, Lajos Simicska, ex-migliore amico di Orbán, aveva rivolto pesanti accuse al primo ministro. Il giorno dopo, anche il giornale online Budapest Beacon, una delle pochi fonti in lingua inglese, ha chiuso i battenti dichiarando “impossibile continuare a pubblicare oggettivamente in un Paese senza pluralità dei media”».

Il nazionalismo sembra essere uno degli aspetti più interessanti nella costruzione politica di Orbán, perché è riuscito a colmare l’aspettativa (post)ideologica di un territorio in cui, storicamente, ha sempre aleggiato l’invasione

La stessa campagna elettorale ungherese di Orbán è stata caratterizzata, come nelle precedenti, da tre pilastri tipici dello schema di una forza populista di destra: la xenofobia, l’euroscetticismo e il nazionalismo. Tutti i punti sono stati abilmente promossi attraverso i canali di informazioni controllati in modo capillare. Sul primo punto Orbán ha più volte ribadito nel corso dell’ultima campagna elettorale la propria linea intransigente sull’immigrazione. Sull’Unione Europea si è più volte espresso con espressioni molto forti: «L’Ue è come l’Unione Sovietica», per esempio. Il nazionalismo, però, sembra essere uno degli aspetti più interessanti nella costruzione politica di Orbán, perché è riuscito, ricorrendo anche a suggestive immagini storiche, a colmare l’aspettativa (post)ideologica di un territorio in cui, storicamente, ha sempre aleggiato l’invasione dapprima mongola, poi ottomana e recentemente sovietica. 

Una folla radunata a Budapest attende l’intervento di Viktor Orbán in occasione delle celebrazioni per i moti del 1848, marzo 2012. Akos Stiller/Bloomberg/Getty

Un esempio del nuovo nazionalismo magiaro costruito da Orbán è il racconto di Geza Gardonyi “L’Eclisse della Luna Crescente”. Questa novella è conosciuta da ogni ungherese alfabetizzato, poiché letta nelle scuole da generazioni, ed è basata su fatti realmente avvenuti nel 1552, quando il capitano Istvan Dopo, insieme al suo reggimento, dovette resistere all’assedio turco al castello di Eger, nel nord del paese, durante la campagna militare degli Ottomani per entrare in Europa. L’eroe principale del racconto è l’esperto di polveri esplosive Gergely Bornemissza che impedisce la conquista di Eger, di fatto l’unico castello ungherese a resistere al dominio ottomano.

Nel settembre del 2015 durante una visita al monastero di Banz, in Bavaria, Orbán ha citato il racconto dichiarandosi «pronto a proteggere l’Ungheria dall’invasione musulmana in Europa». «La campagna mediatica di Orbán è stata basata sull’odio e la paura – dichiara Claudia – Non a caso Fidesz ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle campagne e tra gli elettori di età superiore ai 60 anni. Considerata la scarsa voce in capitolo dell’opposizione, questi risultati erano prevedibili. Immaginiamo una coppia anziana di provincia bombardata dalle uniche notizie a cui ha accesso: tutto il giorno si sentono dire che George Soros è in combutta per fare arrivare in Europa oltre un milione di persone  di religione musulmani con cattive intenzioni. Non dobbiamo stupirci se oltre 2 milioni di ungheresi hanno scelto Orbán e il clima di sicurezza e pace che Fidesz promuove». Proprio il miliardario di origine ungherese George Soros è l’altro grande nemico di Viktor Orbán, quasi un’ossessione. L’ottobre seguente a quel famoso discorso anti-Cremlino tenuto a pochi metri dalla tomba di Nagy, Orbán studiò al Pembroke College dell’Università di Oxford proprio grazie a una borsa di studio pagata dalla Open Society Foundation di Soros. Ora lo speculatore di borsa naturalizzato americano è diventato il nemico numero uno di Orbán, che viene criticato per i rapporti stilati dalle stesse  Ong  che gestisce. A distanza di anni il rapporto di Orbán con il magnate magiaro è quindi radicalmente cambiato al punto che lo stesso Soros ha lamentato di essere stato messo al centro della campagna elettorale di Orbán «perché ebreo».

In molti temono che Orbán possa modificare la costituzione ulteriormente, togliendo questo diritto al popolo per darlo direttamente al parlamento.

In questa situazione il futuro politico dell’Ungheria è destinato a peggiorare rispetto alle funzione democratiche applicabili nel paese e tra poco meno di tre anni il prossimo appuntamento elettorale potrebbe presentare scenari invariati sia sul piano politico che mediatico.

«Nel 2019 si terranno le elezioni municipali – dichiara Claudia – Oggi sono i cittadini che eleggono i sindaci dei vari distretti di Budapest e, se i dati dovessero rimanere invariati, la sinistra avrebbe la maggioranza. In molti temono che Orbán possa modificare la costituzione ulteriormente, togliendo questo diritto al popolo per darlo direttamente al parlamento. E potrebbe farlo, dal momento che può contare su una maggioranza composta dai due terzi del parlamento. Anche la libertà di stampa – continua – non sembra avere un futuro roseo. L’Unione Europea ha accusato molte volte l’Ungheria di non essere un Paese democratico e di voler imbavagliare la stampa, ma ciò non si tradurrà in nessuna azione concreta visto che servirebbe il voto unanime di tutti i Paesi membri e alcuni Stati, come la Polonia, stanno intraprendendo lo stesso cammino di Orbán e giurano di proteggerlo da eventuali decisioni di Bruxelles. Come durante il comunismo, le uniche voci che sopravvivono sono quelle estere i cui spazi dedicati all’Ungheria, però, sono ristretti».