Ho seguito il Partito Democratico insieme a Bernardo Cianfrocca per le elezioni europee. Questa intervista non programmata è una delle tante cose che abbiamo fatto quella sera insieme ai nostri colleghi. A ridosso degli exit-poll
Ho seguito il Partito Democratico insieme a Bernardo Cianfrocca per le elezioni europee. Questa intervista non programmata è una delle tante cose che abbiamo fatto quella sera insieme ai nostri colleghi. A ridosso degli exit-poll
Articolo pubblicato su “La Sestina”, il quotidiano online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Leggi tutti gli altri articoli cliccando qui
Via della Tenuta di Torrenova è poco più di un chilometro di strada nella periferia sud-est della Capitale, tra Tor Vergata e Tor Bella Monaca. La strada è costeggiata da tre complessi di edilizia popolare che i residenti chiamano “case” e differenziano per i colori con cui sono state verniciate dopo la costruzione avvenuta a partire dagli anni Settanta: le rosse, le bianche e le verdi. Qui c’è un’altra Roma, dove alle minacce di stupro di Casal Bruciato e ai panini gettati in strada di Torre Maura si contrappongono i gesti di accoglienza di un centinaio di persone che hanno organizzato turni per proteggere una madre rom e le sue figlie dagli estremisti di destra locali.
La vicenda – Domenica 4 maggio alcuni residenti delle case verdi e i neofascisti di Azione Frontale si sono dati appuntamento sotto il portone di Suzana, una donna di origine rom che vive dal 28 marzo nel complesso popolare insieme alle quattro figlie. La colpa della «zingara» è stata quella di «superare gli italiani nelle graduatorie», vedendosi assegnare regolarmente un alloggio dal Comune. La dimostrazione non aveva ottenuto autorizzazioni, ma il gruppo composto da neofascisti e residenti ha deciso comunque di sfilare, con le camionette delle Forze dell’ordine a vigilare. Quindi gli insulti e le minacce da sotto il balcone. «Zingari di merda», canta a mò di coro un uomo. «Prima gli italiani», il motto generale.
«Hanno minacciato di mettermi una bomba in casa» – «Da quando mi hanno assegnato l’alloggio i miei figli sono stati insultati. “Andate via”, gli dicevano. Hanno minacciato di mettermi una bomba in casa», racconta Suzana ad Ala News. È la stessa donna a confermare come la tensione sia esplosa poche settimane prima della protesta, quando i suoi figli hanno avuto un litigio con altri ragazzi della zona. Sarebbe bastato questo per i residenti delle case verdi per andare sotto il balcone della donna, insultandola e mostrandole un sacco dell’immondizia nera come «posto che ti spetta».
La risposta – Nelle ore successive all’accaduto almeno un centinaio di persone si sono radunate nello stesso cortile, ma non per continuare con le minacce bensì per difendere Suzana. Dopo una serie di messaggi via WhatsApp, diverse sigle di sinistra, dai sindacati alle mamme di quartiere fino all’Anpi locale, hanno creato una rete di solidarietà organizzando turni di veglia davanti alla Scala I, dove vive la famiglia di Suzana. «Come Asia Usb abbiamo voluto riportare l’attenzione sui problemi reali – spiega Maria Vittoria Molinari, presente alla manifestazione – Mentre i fascisti spostano l’attenzione sfruttando i problemi dei più deboli, noi vogliamo che si parli di questioni cruciali come la mancanza di alloggi popolari. Sono dinamiche particolari e delicate per cui i residenti prima litigano coi rom e poi vengono messi l’uno contro l’altro. Nelle popolari ci sono più nuclei che vivono. La mancanza delle case popolari – continua – dovrebbe essere il punto su cui le istituzioni dovrebbero agire. Caserme dismesse, case di un tempo sede di enti ed ex-uffici rimangono disabitati».
I volantini – Dopo la contro-manifestazione c’è stata anche una ritorsione: l’affissione di volantini che ritraggono la stessa Molinari con un testo volto a screditarne l’operato e quello di chi ha partecipato al gesto di solidarietà nei confronti di Suzana. I volantini sono stati diffusi in tutto il quartiere di Torrenova a firma “Azione Frontale”. Tuttavia, i presìdi delle donne antifasciste continuano. «Siamo mamme, insegnati e dirigenti sindacali parte di una rete di coordinamento presente in tutto questo municipio – conclude Molinari – Siamo anche diverse sul piano politico, ma abbiamo una visione aperta per cui nelle nostre periferie questa gente non deve attecchire e devono esserci altre priorità».
Ogni volta che qualche residente delle periferie romane diventa protagonista di un atto di disobbedienza civile, c’è come una sensazione di scalpore, come se nessuno da quelle zone potesse avere un pensiero strutturato e critico. È una sensazione che ho percepito, soprattutto stando fuori Roma, anche sul caso dell’adolescente che ha espresso il suo dissenso in faccia agli affiliati di Casapound a Torre Maura, nella periferia sud-est di Roma, dopo le proteste per il trasferimento in zona di alcune famiglie di etnia rom.
Non è un discorso su quanto accaduto in quelle zone dimenticate dalle istituzioni quanto dai cittadini, a definire gli avvenimenti ci ha già pensato quel ragazzetto per fortuna. Parlo proprio dell’impressione che si ha quando accadono episodi simili, quando la veracità supera il significato dietro certi avvenimenti. Nel caso di Torre Maura, il 15enne che sfida i neofascisti è una leggera e forte nota di profumo in un mare di letame, con questo scalpore destato da non si sa bene cosa.
L’estate scorsa è successa la stessa cosa, con il caso di Ivano che in diretta su La7 accusò i manifestanti neofascisti accorsi fuori dal centro di asilo di Rocca di Papa di cavalcare gli eventi a fini di consenso. Anche in quel caso ho avuto sempre la stessa impressione: l’elemento folkloristico supera il significato. E questa impressione me l’hanno data gli stessi con cui ce l’ho scrivendo queste povere righe: una precisa parte della società che è cieca rispetto a chi vive fuori dal salotto. Che si dice zoppo, ma va a correre. E non sono i “furbetti” dei comuni, ma i “ciechi” della politica. C’è da dirgli “sveglia”: nelle disastrate periferie romane, dove la dispersione scolastica e le problematiche socio-economiche scandiscono le giornate di molti, c’è vita. E pensiero. Anche politico.
Avete rotto il cazzo, concedetemelo, a pensare il contrario solo perché serve a rinforzare certi preconcetti che, nel caso dei soggetti politici e istituzionali coinvolti questo processo, servono a coprirsi dietro al paravento di una responsabilità mancata. Tradotto, cari “ciechi”: vi dimenticate delle periferie salvo parlarne quando sbucano a dirvi che esistono nonostante le strade con pochi marciapiedi, gli stessi dove il pane viene sprecato. Lo fate fino alle prossime elezioni, quando ritorna la memoria. Tacete, sprofondati in comode poltrone bianche. Fatelo, per favore.
Sono interista e Antonio Candreva non è uno dei giocatori che brilla per le prestazioni sul campo. Quando viene schierato sulla fascia i suoi cross non suscitano emozioni né occasioni da rete. Eppure il gesto che il calciatore romano ha fatto, pagare la retta della mensa a una bambina in una asilo di Verona, è un cross decisamente azzeccato. Un piccolo gesto, ma importante, che ha fatto il giro del mondo e si scaglia contro il freddo della burocrazia che trova in un clima politico italiano preciso un terreno fertile per proliferare.
«Eh vabbè, ma tanto quello, Candreva, guadagna milioni all’anno. Deve farlo», il commento medio. E quindi? Non c’è niente di scontato, tantomeno di dovuto. Questo gesto di solidarietà, che richiama a una vicinanza rispetto a temi sociali come, in questo caso, l’inclusione sociale dei bambini nelle scuole, a prescindere dall’etnia di appartenenza, è sempre stato triste vedere un bambino escluso a scuola, qualunque sia il motivo. Il gesto del calciatore di Tor De’ Cenci verso quella bambina destinata da a pranzi a base di tonno e cracker sulla scia che “eseguire” è più giusto, e forse più facile, di “integrare”, è un bel gesto. Punto.
Che risveglia pure un senso di comunità, se si vuole. Candreva di traversoni simili ne aveva già fatti, come quando contribuì a sostenere le vittime del sisma che colpì l’Aquila. In questi giorni ne ha azzeccato un altro, di traversone. Anzi: forse il termine “azzeccato” è inappropriato poiché legato al caso, al fortuito. Qui siamo davanti a un’intenzione. Candreva ce l’ha avuta, questa intenzione. Ce l’ha avuta “di questi tempi”. «Ma non ho ancora fatto niente», dice. E va bene, Antò, un cross alla volta.
Articolo pubblicato su “La Sestina”, la testata online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”
La buona intenzione c’è, ma i problemi non mancano. L’iniziativa del Comune di Milano di utilizzare la residenza fittizia per garantire il reddito di cittadinanza ai senzatetto potrebbe andare incontro a una serie di criticità. Da Palazzo Marino riconoscono che la gestione delle richieste delle persone senza fissa dimora potrebbe appesantire il lavoro degli uffici comunali a causa delle criticità legate alla residenza dei richiedenti, al controllo fiscale e alle mancate direttive ricevute dal ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico riguardo gli impieghi collettivi previsti dalla norma.
La residenza fittizia – Per far fronte al problema, il Comune ha previsto l’utilizzo della residenza fittizia come strumento utile a garantire il reddito di cittadinanza anche ai senza dimora aventi diritto. La residenza fittizia è in vigore da anni ed è sfruttata dai comuni per garantire alle persone senza un luogo fisso di avere un indirizzo di residenza dove poter ricevere documenti, posta ed essere rintracciate. Tuttavia, soltanto 200 comuni italiani su 8mila sfruttano questo istituto. Per ampliare le possibilità degli aventi diritto a presentare la domanda, il Comune aprirà entro fine febbraio 4 nuovi centri dove i senzatetto richiedenti potranno dialogare con il municipio e gestire le carte.
Le criticità su Milano – In generale, il reddito di cittadinanza presenta le stesse criticità per tutti i richiedenti. I comuni sono coinvolti in una comunicazione assente da parte del ministero, che non ha ancora inviato linee guida su come organizzare gli apparati interni. «Nonostante l’interesse e le domande pervenute, dagli uffici ci hanno fatto sapere che la macchina non è ancora avviata – spiega Martina Carnovale, portavoce dell’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino – Uno dei dubbi riguarda i progetti utili alla collettività previsti dal decreto, quelli che Di Maio ha chiamato volgarmente “lavori socialmente utili”». Tra le misure della legge, infatti, è previsto che i beneficiari del reddito prendano parte a lavori collettivi di diversa natura all’intero di strutture comunali per un totale di 8 ore settimanali. «Chi pagherà l’assicurazione a queste persone che presteranno servizi alla collettività? – si chiede Carnovale – Chi si occuperà dei corsi di formazione utili al loro svolgimento? Nessuno ce lo ha ancora detto». L’altro punto riguarda i controlli per scovare chi godrà in maniera illecita del reddito di cittadinanza. Per risolvere il problema, la legge ha previsto controlli fiscali incrociati svolti dai comuni, che potranno visionare le dichiarazioni Isee dei richiedenti. «Un lavoro enorme per un comune vasto come Milano – continua Carnovale – Oltre alle domande di assegnazione andranno gestiti anche questo tipo di controlli sul territorio. Un lavoro che rischia di appesantire la burocrazia comunale».
Conflitto – Così come tra cittadini italiani e stranieri con residenza stabile, l’assegnazione del sussidio potrebbe aprire una spaccatura anche all’interno della comunità di senzatetto. La legge che ha approvato il reddito di cittadinanza prevede l’assegnazione del sussidio agli stranieri residenti purché in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due continuativi. Per chi non ha una residenza, però, il problema resta dimostrare che il proprio soggiorno rientri nelle richieste avanzate. «Un conflitto creato dalla legge stessa», conclude Carnovale.
Budapest, giugno 1989. I gruppi di opposizione all’occupazione sovietica, in accordo con l’ala riformista comunista ungherese, decidono di disseppellire la bara di Imre Nagy, il politico magiaro a capo della fallita rivoluzione del 1956 poi ucciso dai servizi segreti di Mosca.
C’è un’atmosfera di omaggio a 31 anni da quell’assassinio e un giovane laureato in legge con un passato da calciatore professionista di nome Viktor Orbán supera la folla con i suoi compagni tenendo un discorso contro l’invasione russa in Ungheria. Cinque mesi più tardi il muro di Berlino cadrà e con esso anche l’Unione Sovietica, che inizierà la smobilitizzazione delle truppe dai paesi sotto l’influenza della cortina di ferro.
Ascesa al potere
Un anno più tardi, nel 1990, quello stesso ragazzo conquisterà il suo primo posto nel parlamento di Budapest, iniziando la sua corsa al potere con un partito populista e conservatore creato a sua immagine e somiglianza, Fidesz.
La sua ascesa è rapida e nel 1998 conquisterà la presidenza ungherese a soli 35 anni diventando il più giovane capo di stato nella storia del paese. Da allora la politica dell’Ungheria è direttamente connessa alla figura di questo avvocato proveniente da Székesfehérvár, città nel cuore dell’Ungheria, nonché capitale del paese epoca medievale, dove ha vissuto con la famiglia sostenuta dal padre controllore tecnico presso le miniere locali. Lo scorso 8 aprile Orbán ha ottenuto il suo quarto mandato, il terzo consecutivo, conquistando il 98 percento dei voti. «Un voto espressione del popolo» chioserà il premier slovacco Peter Pellegrini quando l’Unione Europea denuncia le forti influenze governative sulla campagna elettorale in Ungheria.
Il dato non ha sorpreso gli analisti politici perché in Ungheria, stando alle denunce delle associazioni, come alle manifestazioni auto-organizzate da milioni di cittadini ungheresi, la richiesta di un maggiore spazio al dibattito politico e alla pluralità dei mezzi di informazione creano domande lecite sull’effettiva qualità del consenso ottenuto da Orbán.
Lo scenario politico in Ungheria ha anticipato spesso le caratteristiche delle politiche populiste in Europa. Molti dei paesi centrali, come la Polonia e l’Austria, hanno guardato a Orbán come a un modello da seguire. Le sue politiche interne creano molto imbarazzo a Bruxelles, dove è osteggiato da gran parte dei rappresentanti politici del Vecchio Continente. Specie dopo il dibattito con Angela Merkel sulla costruzione di barriere al confine meridionale con la Croazia e la Serbia, volte a respingere il passaggio dei migranti dal Medio-Oriente, Orbán ha ottenuto da un lato una condanna generale ma dall’altro anche molti consensi tra i suoi estimatori, tra cui figurano Salvini, Le Pen e Trump, che lo ha definito «forte e coraggioso».
Zone d’ombra e repressione
Il clima politico che si è creato in Ungheria è stato reso possibile attraverso il controllo totale dei mezzi di informazione da parte del governo centrale. Nel 2017 i 18 maggiori quotidiani regionali ungheresi sono stati acquisiti da oligarchi filo-governativi. Che è la stessa categoria imprenditoriale che Orbán aveva messo nel mirino durante gran parte degli anni Novanta, quando in Ungheria gli oligarchi col passato comunista spadroneggiavano nella speculazione legata alla privatizzazione delle aziende. La differenza è che gli attuali, di oligarchi, sono suoi alleati. Dalla caduta dell’Urss la classe dirigente è cambiata e l’attuale corpus industriale non ha pochi rapporti col passato sovietico del paese, così l’Ungheria del boom economico è anche il paese europeo con un tasso di corruzione tra i più alti in Europa.
Le stesse ricchezze della famiglia di Orbán sono al centro di diverse inchieste, come quella avviata nel marzo scorso dall’Ufficio Europeo Anti-Frode dell’Unione Europea. Secondo l’edizione ungherese di Forbes, inoltre, Orbán avrebbe ottenuti ricchezze per circa 750 milioni di dollari, divenendo il secondo uomo più ricco di Ungheria dopo il banchiere Sándor Csányi. Vaste zone d’ombra collegano lo stesso presidente ungherese in affari milionari nei settori strategici e di sviluppo, che sono curati da suoi parenti e amici imprenditori.
«Paradossalmente la libertà di espressione era maggiormente garantita durante il regime comunista»
Per mantenere la discrezione su scenari così torbidi, Orbán ha usato tutto il potere politico per soffocare l’informazione indipendente in Ungheria. E lo ha fatto al punto che la Commissione nazionale per la regolamentazione radiotelevisiva è divenuta anche nota come “la commissione incompleta” che, grazie ad alcune modifiche alle leggi fatte da Orbán stesso, oggi è composta da soli esponenti di Fidesz. Il piano di controllo dei mezzi di informazione è, tuttavia, solo una parte dell’espressione del potere politico e dell’opulenza accumulata dal leader di Fedesz in dieci anni. In generale i meccanismi che hanno concesso tali libertà a Orbán funzionano perché è stato capace di annullare l’opposizione proprio attraverso l’isolamento mediatico.
«Paradossalmente la libertà di espressione era maggiormente garantita durante il regime comunista», mi spiega Claudia Patricolo, una ex-compagna di corso ai tempi dell’università che ora lavora come Deputy Editor per Emerging Europe, un magazine britannico che si occupa esclusivamente di Centro ed Est Europa. «Dopo il 1989 sono nate decine di testate, canali televisivi e radio private ma si tratta di una pluralità solo apparente – continua – I primi ministri che si sono succeduti negli ultimi anni hanno cercato di mettere un freno all’informazione obiettiva, controllando i mass-media attraverso leggi ad hoc e nomine di redattori a loro favorevoli».
Svolgere un’attività giornalistica libera in questo paese è difficile. Alcuni attivisti, osservatori di ONG e cronisti rischiano il posto di lavoro ogni giorno nell’Ungheria di Orbán, che sta realizzando il suo piano di realizzazione di un «governo illiberale», come ha sottolineato lo scorso gennaio tra il plauso dei suoi alleati politici. «Alcuni giornalisti attivi negli anni ’70 – racconta Claudia – mi hanno spiegato la difficoltà nel pubblicare notizie non approvate dal governo. Era difficile, ma non impossibile. Quando ci fu il disastro nucleare a Chernobyl, per esempio, L’Urss vietò di parlarne per non minare l’immagine del regime. Tuttavia molti giornalisti usarono i comunicati stampa delle ambasciate straniere, considerate anche dall’Urss come istituzioni ufficiali, e riuscirono a pubblicare la notizia ugualmente. Un modo si trovava sempre, dopotutto. Oggi, invece, trovare quel modo puo’ farti perdere il posto».
“Noi vs. Loro”, un classico moderno
Andare contro Orbán significa prima essere additati come “nemici del popolo” e poi come “amici del sistema”. Questo genere di illazioni, insieme a una efficace speculazione storica perpetrata abilmente da Orbàn, hanno permesso al presidente ungherese di costruire una vera e proprio post-ideologia che è difficile da scalfire attraverso un giornalismo osteggiato e represso: essere inserito nella lista nera degli oppositori significa crollare.
«I pochi canali indipendenti vivono di autocensura – mi spiega Claudia – e chi non lo fa rischia di chiudere. Nel 2016 qui tutti ricordano cosa è accaduto al giornale di sinistra Népszabadság: all’improvviso è stato chiuso e i suoi dipendenti mandati a casa. Per evitare lamentele i proprietari hanno “concesso” altri tre mesi di stipendio, facendo passare il gesto per una gentile concessione del governo centrale quando invece in Ungheria la legge prevede espressamente il pagamento di tre mensilità, equivalenti al nostro sussidio di disoccupazione. Nei casi in cui le proprietà non siano legate al governo – prosegue – il destino dei giornalisti, e di quello che diranno, è nelle mani dei capi redattori. Possono essere fortunati e trovare qualcuno che si batta per loro. Tre anni fa, avevo letto un report su un possibile giro di riciclaggio di denaro mascherato in alcuni conti correnti inesistenti a Malta e a Cipro. Volevo approfondire la questione: mi é stato sconsigliato».
Nonostante il pugno duro di Orbán, molte organizzazioni internazionali e ungheresi, l’altra grande categoria osteggiata dal leader di Fedesz, monitorano l’ambiente democratico del paese. Alla vigilia della tornata elettorale di aprile l’Osce ha espressopreoccupazione per la mancanza di pluralità nel dibattito pubblico ungherese e sull’influenza di questo aspetto sui risultati elettorali.
«Non sono state elezioni obiettive e Fidesz è stato quasi l’unico protagonista, ma non possiamo parlare di irregolarità dal momento che la legge ungherese non prevede dibattiti o spazi definiti per l’opposizione dopo le modificazioni create da Orbán. Se teniamo in conto gli avvenimenti degli ultimi giorni, l’Ungheria ha davanti a sé quattro lunghissimi anni. A meno di 48 ore dalle elezioni, il quotidiano conservatore a maggiore tiratura, Magyar Nemzet, ha chiuso per motivi economici. Guarda caso il proprietario, Lajos Simicska, ex-migliore amico di Orbán, aveva rivolto pesanti accuse al primo ministro. Il giorno dopo, anche il giornale online Budapest Beacon, una delle pochi fonti in lingua inglese, ha chiuso i battenti dichiarando “impossibile continuare a pubblicare oggettivamente in un Paese senza pluralità dei media”».
Il nazionalismo sembra essere uno degli aspetti più interessanti nella costruzione politica di Orbán, perché è riuscito a colmare l’aspettativa (post)ideologica di un territorio in cui, storicamente, ha sempre aleggiato l’invasione
La stessa campagna elettorale ungherese di Orbán è stata caratterizzata, come nelle precedenti, da tre pilastri tipici dello schema di una forza populista di destra: la xenofobia, l’euroscetticismo e il nazionalismo. Tutti i punti sono stati abilmente promossi attraverso i canali di informazioni controllati in modo capillare. Sul primo punto Orbán ha più volte ribadito nel corso dell’ultima campagna elettorale la propria linea intransigente sull’immigrazione. Sull’Unione Europea si è più volte espresso con espressioni molto forti: «L’Ue è come l’Unione Sovietica», per esempio. Il nazionalismo, però, sembra essere uno degli aspetti più interessanti nella costruzione politica di Orbán, perché è riuscito, ricorrendo anche a suggestive immagini storiche, a colmare l’aspettativa (post)ideologica di un territorio in cui, storicamente, ha sempre aleggiato l’invasione dapprima mongola, poi ottomana e recentemente sovietica.
Un esempio del nuovo nazionalismo magiaro costruito da Orbán è il racconto di Geza Gardonyi “L’Eclisse della Luna Crescente”. Questa novella è conosciuta da ogni ungherese alfabetizzato, poiché letta nelle scuole da generazioni, ed è basata su fatti realmente avvenuti nel 1552, quando il capitano Istvan Dopo, insieme al suo reggimento, dovette resistere all’assedio turco al castello di Eger, nel nord del paese, durante la campagna militare degli Ottomani per entrare in Europa. L’eroe principale del racconto è l’esperto di polveri esplosive Gergely Bornemissza che impedisce la conquista di Eger, di fatto l’unico castello ungherese a resistere al dominio ottomano.
Nel settembre del 2015 durante una visita al monastero di Banz, in Bavaria, Orbán ha citato il racconto dichiarandosi «pronto a proteggere l’Ungheria dall’invasione musulmana in Europa». «La campagna mediatica di Orbán è stata basata sull’odio e la paura – dichiara Claudia – Non a caso Fidesz ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle campagne e tra gli elettori di età superiore ai 60 anni. Considerata la scarsa voce in capitolo dell’opposizione, questi risultati erano prevedibili. Immaginiamo una coppia anziana di provincia bombardata dalle uniche notizie a cui ha accesso: tutto il giorno si sentono dire che George Soros è in combutta per fare arrivare in Europa oltre un milione di persone di religione musulmani con cattive intenzioni. Non dobbiamo stupirci se oltre 2 milioni di ungheresi hanno scelto Orbán e il clima di sicurezza e pace che Fidesz promuove». Proprio il miliardario di origine ungherese George Soros è l’altro grande nemico di Viktor Orbán, quasi un’ossessione. L’ottobre seguente a quel famoso discorso anti-Cremlino tenuto a pochi metri dalla tomba di Nagy, Orbán studiò al Pembroke College dell’Università di Oxford proprio grazie a una borsa di studio pagata dalla Open Society Foundation di Soros. Ora lo speculatore di borsa naturalizzato americano è diventato il nemico numero uno di Orbán, che viene criticato per i rapporti stilati dalle stesse Ong che gestisce. A distanza di anni il rapporto di Orbán con il magnate magiaro è quindi radicalmente cambiato al punto che lo stesso Soros ha lamentato di essere stato messo al centro della campagna elettorale di Orbán «perché ebreo».
In molti temono che Orbán possa modificare la costituzione ulteriormente, togliendo questo diritto al popolo per darlo direttamente al parlamento.
In questa situazione il futuro politico dell’Ungheria è destinato a peggiorare rispetto alle funzione democratiche applicabili nel paese e tra poco meno di tre anni il prossimo appuntamento elettorale potrebbe presentare scenari invariati sia sul piano politico che mediatico.
«Nel 2019 si terranno le elezioni municipali – dichiara Claudia – Oggi sono i cittadini che eleggono i sindaci dei vari distretti di Budapest e, se i dati dovessero rimanere invariati, la sinistra avrebbe la maggioranza. In molti temono che Orbán possa modificare la costituzione ulteriormente, togliendo questo diritto al popolo per darlo direttamente al parlamento. E potrebbe farlo, dal momento che può contare su una maggioranza composta dai due terzi del parlamento. Anche la libertà di stampa – continua – non sembra avere un futuro roseo. L’Unione Europea ha accusato molte volte l’Ungheria di non essere un Paese democratico e di voler imbavagliare la stampa, ma ciò non si tradurrà in nessuna azione concreta visto che servirebbe il voto unanime di tutti i Paesi membri e alcuni Stati, come la Polonia, stanno intraprendendo lo stesso cammino di Orbán e giurano di proteggerlo da eventuali decisioni di Bruxelles. Come durante il comunismo, le uniche voci che sopravvivono sono quelle estere i cui spazi dedicati all’Ungheria, però, sono ristretti».