Inter Milan's Italian midfielder Antonio Candreva kicks the ball during the Italian Serie A football match between Inter Milan and Spal at San Siro Stadium in Milan on September 10, 2017. / AFP PHOTO / MIGUEL MEDINA (Photo credit should read MIGUEL MEDINA/AFP/Getty Images)
Sono interista e Antonio Candreva non è uno dei giocatori che brilla per le prestazioni sul campo. Quando viene schierato sulla fascia i suoi cross non suscitano emozioni né occasioni da rete. Eppure il gesto che il calciatore romano ha fatto, pagare la retta della mensa a una bambina in una asilo di Verona, è un cross decisamente azzeccato. Un piccolo gesto, ma importante, che ha fatto il giro del mondo e si scaglia contro il freddo della burocrazia che trova in un clima politico italiano preciso un terreno fertile per proliferare.
«Eh vabbè, ma tanto quello, Candreva, guadagna milioni all’anno. Deve farlo», il commento medio. E quindi? Non c’è niente di scontato, tantomeno di dovuto. Questo gesto di solidarietà, che richiama a una vicinanza rispetto a temi sociali come, in questo caso, l’inclusione sociale dei bambini nelle scuole, a prescindere dall’etnia di appartenenza, è sempre stato triste vedere un bambino escluso a scuola, qualunque sia il motivo. Il gesto del calciatore di Tor De’ Cenci verso quella bambina destinata da a pranzi a base di tonno e cracker sulla scia che “eseguire” è più giusto, e forse più facile, di “integrare”, è un bel gesto. Punto.
Che risveglia pure un senso di comunità, se si vuole. Candreva di traversoni simili ne aveva già fatti, come quando contribuì a sostenere le vittime del sisma che colpì l’Aquila. In questi giorni ne ha azzeccato un altro, di traversone. Anzi: forse il termine “azzeccato” è inappropriato poiché legato al caso, al fortuito. Qui siamo davanti a un’intenzione. Candreva ce l’ha avuta, questa intenzione. Ce l’ha avuta “di questi tempi”. «Ma non ho ancora fatto niente», dice. E va bene, Antò, un cross alla volta.
Finanziare progetti di solidarietà e reintegrazione sociale, correndo. Questo l’obiettivo di #RUN4THEFUTURE, iniziativa della cooperativa sociale “Gulliver” di Varese che, lo scorso 7 aprile, ha organizzato una raccolta fondi legandosi alla Milano Marathon attraverso il Charity Program dell’evento.
Alla competizione podistica hanno partecipato 322 persone, impegnate a correre i 42 chilometri, due in solitaria e gli altri in staffetta, per completare l’arredo della Cascina Redaelli. Nella sede in località Bregazzana, l’associazione svolge attraverso tre delle sue 8 comunità terapeutiche attività di assistenza legate al recupero e alla cura di persone affette da malattie psichiatriche o in condizioni di tossicodipendenza.
Grazie ai fondi raccolti l’anno scorso durante il medesimo evento, dieci ospiti hanno ottenuto una camera rinnovata. Ora, l’obiettivo è di rinnovarla per tutti i 55 ospiti della struttura. Attualmente, tramite “Rete del dono”, il centro ha raccolto oltre 41mila euro, superando del 10 per cento la cifra stabilita.
Ho pubblicato questo articolo sul numero 4 di “MM”, il quindicinale della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Per leggere tutti gli articoli del magazine cliccate qui. È gratis – e ripaga gli sforzi di tutti noi.
Il rugby in Italia soffre una crisi economica e federale che complica lo sviluppo della disciplina. Il panorama ovale di Milano non fa eccezione e rappresenta un paradosso. Stando ai dati del Comitato Fir Lombardia, Milano è sottorappresentata rispetto al numero di praticanti. Pur appartenendo alla regione col più alto numero di tesserati in Italia – 13.618 praticanti su 17.173 iscritti – e nonostante 36 club e 4.825 rugbisti, l’intera area metropolitana non ha un movimento competitivo. I professionisti che parlano meneghino sono sempre meno.
Luca Morisi in azione con la maglia della Benetton Treviso nel 2013
Dei 31 azzurri selezionati per il Sei Nazioni 2019, appena 5 sono lombardi, con i soli Luca Morisi e Simone Ferrari cresciuti nel milanese ed emigrati alla Benetton Treviso. «I club migliori della Lombardia sono concentrati nel bresciano, dove il tessuto industriale fornisce investimenti», dicono dal Comitato. Milano è esclusa da quest’ottica. «Il Veneto esprime squadre ad alto livello perché ha una tradizione e una gestione tecnica migliore», aggiunge il presidente del Comitato lombardo Angelo Bresciani. Eppure il rugby milanese ha radici gloriose. Agli inizi del Novecento, quando lo sport si affermava come fenomeno di massa nelle città industriali, discipline come il rugby trovarono seguito col fiorire delle polisportive, tra cui l’Unione sportiva Milano. Stefano Bellandi si fece promotore della Fir e diffuse il gioco fondando, dopo la scissione dall’Ambrosiana, l’Amatori, società tuttora detentrice del record di scudetti vinti in Italia. Entrambi i club sono falliti e del passato rimane poco.
C’è il presente, però, come in via Padova, dove tra le insegne dei negozi etnici sbucano i pali del campo della Cus Milano rugby. La società ha inaugurato a dicembre lo spazio di via Cambini grazie a Insieme, progetto che ha aperto centri polifunzionali a Quarto Oggiaro, Segrate, Giuriati e Baggio. «Un piano realizzato con il Comune e l’impegno dell’ex nazionale Diego Dominguez», spiega Mario Smedile, responsabile delle relazioni pubbliche del Cus. L’impianto è parte della periferia, tra le più alte per numero di residenti stranieri.
Una formazione della Unione Sportiva Milanese nel 1911. In piedi a sinistra Stefano Bellandi
«I ragazzi sono stati tolti dalla strada e dalle brutte compagnie. Provengono da famiglie che non si possono permettere una retta», dice Giuseppe Fulgoni, responsabile tecnico del Cus. Il carattere educativo del progetto non esclude la qualità tecnica. «Il rugby non è la prima scelta e c’è una capacità motoria limitata. La scuola in questo senso dà zero, non c’è progettualità».
Fulgoni affronta il nodo della mancata affermazione dei talenti: la gestione del deficit tecnico, lacuna che arriva fino in nazionale. «La specializzazione precoce è un problema», spiega Fulgoni. «Gioca solo chi è forte e ci si scorda degli altri, creando squilibri. Arrivano infortuni o percorsi diversi dal rugby e si rimane con i giocatori su cui si è puntato meno. Bisogna puntare sulla tecnica collettiva e smetterla di vincere a tutti i costi».
Japanese climber Kuriki Nobukazu speaks during an interview in Kathmandu, August 22, 2015. A Japanese climber will be the first to attempt to scale Mount Everest since a massive earthquake in April triggered avalanches that killed 18 climbers, shutting an industry that feeds thousands of people across Nepal. Picture taken on August 22, 2015. REUTERS/Navesh Chitrakar
La Valle del Silenzio si trova nel percorso occidentale dell’Everest. La struttura topografica della vallata impedisce al vento di toccare le pareti e quindi di creare rumori. Nessun suono: solo ghiaccio e roccia.
Lo scalatore e alpinista giapponese Nobukazu Kuriki quella vallata l’ha attraversata più volte. Sul Chomolungmal, come viene chiamata la vetta più alta del mondo dai nepalesi, Kuriki ha cercato la gloria più volte – fallendo sempre.
Nel 2015 il Nepal è stato stravolto da un sisma che uccise 9mila persone. Tutto il movimento alpinista restò confuso davanti la prospettiva di nuove scosse. Molti appassionati e professionisti abbandonarono i campi base e ogni progetto di scalata nel breve periodo. In un periodo piuttosto osteggiato come l’inverno himalayano, Kuriki, invece, decise di tentare lo stesso insieme a un gruppo di guide sherpa. «Lo faccio anche per queste persone così che tutti sappiano che si può tornare su questi percorsi», disse.
In quella scalata Kuriki fu bloccato dalle condizioni atmosferiche proibitive. Ma la sua impresa fu altrettanto importante e utile a far tornare l’Himalaya un posto frequentato dagli amanti della montagna estrema. Un fatto importante anche per lo stesso Nepal, che vede nel turismo alpino il 4% del Pil.
Kuriki organizzò la spedizione senza bombole di ossigeno, privato di nove dita perse a causa dell’ibernazione cui andò incontro nella scalata precedente, e armato di macchina fotografica e videocamera. «Posso comunque trasportare e usare la mia attrezzatura», rassicurò prima di partire.
Kuriki provò per otto volte a scalare l’Everest, fallendo sempre. La maggior parte delle persone penseranno che c’è qualcosa di folle nelle sue fatiche, ma forse Kuriki è un esempio della perseveranza umana. Lo stesso New York Times lo ha inserito nella lista delle persone “che hanno vissuto” per il 2018. Ed è per questo motivo che, essendomene occupato nel 2015 con un articolo scritto male, sono rimasto colpito dalla sua scomparsa una volta letto l’articolo del quotidiano americano. Alla fine è morto sulla sua montagna.
Di lui rimangono le foto, i libri e i video che lo hanno reso anche un personaggio pubblico. Attraverso i racconti in streaming delle sue imprese, Kuriki ha cambiato un pò la visione dell’impresa alpinista e rendendola un gesto collettivo. Inoltre, ha attirato donatori e partnership con diversi network ed entità che hanno finanziato le sue imprese e i suoi progetti per la tutela dell’ambiente nepalese.
Nato a Hokkaido, Kuriki si è avvicinato alla montagna dopo la laurea in Sociologia all’Università Internazionale di Sapporo. In nove anni ha scalato tutte le vette più alte del mondo. A eccezione proprio dell’Everest, la sua grande sfida dove ha incontrato un altro silenzio: quello della morte.
Nel maggio scorso, infatti, arrivato al Camp Three – a 7470 metri di altitudine – l’alpinista ha avuto un malore e ha chiamato aiuto. I soccorsi giungeranno tardi: Kuriki morirà il 21 maggio 2018 a 35 anni sulla facciata sud-est dell’unica vetta che non è riuscito a scalare. Dopo qualche giorno, il suo corpo fu recuperato in un crepaccio a cento metri dal luogo della chiamata con segni evidenti di caduta. L’ultimo post: «Spero di far salire il mio spirito con tutti voi».
Un uomo segue una partita di calcio in radio e scopre che lo stadio in cui si svolge l’incontro è solo una finzione proveniente dall’immaginazione di qualcun altro. Poi tutto scompare.
È la trama di “Esse est principi”, il racconto sul pallone scritto a quattro mani da Adolfo Bioy Casares insieme al maestro del surrealismo argentino Jorge Luis Borges. In quella storia lo stadio è il Monumental, quello del River Plate, lo stesso che è stato teatro degli scontri tra tifosi del River Plate e quelli del Boca – e la polizia.
La canzone per l’articolo è un set della dj argentina Sol Ortega.
La rivalità – In 110 anni di futbol argentino la rivalità tra Boca Junior e River Plate è stata più di una partita di calcio. Oggi il Superclasico esula da tutto questo e rimane coinvolto in implicazioni extra-sportive.
Da questione di classe, specie tra gli anni Venti e Trenta, quando le radici e la disponibilità economica dei due club rifletteva la divisione di una capitale, la rivalità in questa settimana è diventata specchio di un paese.
I due quartieri aspettano. Da un lato il barrio Palermo dei Millonaros del River, dall’altro La Boca degli Xeinezes, dal nome degli immigrati genovesi che fondarono la squadra. Un quartiere dalle origini operaie e marinare contro uno aristocratico e alto-borghese, ovvero una questione esistenziale del Novecento. Quel tempo sembra finito anche per questa rivalità, ormai macchiata da altro.
La crisi economica – C’è poca fantasia, però, nei disordini pre-match tra i tifosi del River e quelli del Boca – e la polizia. La vicenda esula dal calcio: è reale ed esprime la condizione di tutta l’Argentina. Il governo di centro-destra presieduto dal presidente Mauricio Macri è sotto pressione per l’ennesima depressione economica che affligge il paese.
In Argentina la crisi economica affonda le proprie radici al tempo della dittatura ed evoca i crack finanziari del 2001 confermando la fragilità del sistema finanziario nazionale. Che tende spesso a rendere squilibrato il mercato anche a causa di una moneta debole.
La crisi istituzionale – La popolazione argentina soffre una società contraddistinta da disuguaglianze sociali acuite da fenomeni che guastano lo stato di salute di una democrazia, su tutti: corruzione e criminalità. In questo senso, etichettare i fatti successi a Buenos Aires come episodi di mera violenza è riduttivo.
«Vergogna mondiale» è stato il titolo più utilizzato sulle prime pagine della stampa argentina per definire gli scontri, nel sentimento di sdegno il calcio svolge un ruolo marginale. C’è una crisi istituzionale importante che va oltre la capacità di un popolo di godere del solo “pane e circo”.
Paolo Galassi ha scritto su La Repubblica che dietro agli scontri di Buenos Aires ci sarebbe una ripicca da parte dei caudillos, parola dello slang argentino traducibile in “capetti”, interni alla polizia.
Questi agenti avrebbero boicottato le misure per arginare i tifosi perché hanno visto uno smacco nella lotta alla corruzione portata avanti dal ministro della Sicurezza di Buenos Aires Martin Ocampo.
Le misure di Ocampo avrebbero ridotto la corruzione che unge i dipartimenti delle forze dell’ordine e questo, in tema di surreale, gli è costato il posto e si è dimesso. E nel weekend ci sarà il G-20.
La criminalità – Tra gli scontri erano presenti anche affiliati de Los Borrachos del Tablón, gang criminale nota per gestire alcuni traffici di droga nella capitale argentina.
Nel 2018 il gruppo, o barraclavas, è stato colpito da diverse operazioni delle squadre narcotici. L’ultima ha visto il sequestro di 7 milioni di pesos, 15mila dollari in contanti e, soprattutto, 300 biglietti per lo stadio. Esatto: questa gang criminale entra ogni domenica al Monumental, dove frequenta le curve del River.
Gli stessi inquirenti pensano che la società abbia dato sotto banco i biglietti per il match. Certa è invece la simbologia e il messaggio che il gruppo ha voluto dare preferendo gli scontri e disertando il settore che occupa.
Similmente al racconto di Borges, bisogna sperare che a scomparire sia tutto ciò che circonda il Monumental. E non è il calcio.